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Centro Yoga Anahata
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1 - dalle origini al sorgere del buddhismo (3000 a.c. - 500 a.c. circa)
Premessa
Iniziando questa breve digressione sull'affascinante cultura hindu,
è necessario chiarire il concetto di "storia". La nostra cultura è
stata fortemente condizionata dal pensiero greco. Noi riteniamo di
avere una sola vita a disposizione, una meteora nel flusso
ininterrotto del tempo. Da qui sc
aturisce la necessità ossessiva di registrare, dare una paternità ai pensieri o alle gesta, unico mezzo per il singolo individuo di garantirsi un'effimera immortalità. La visione hindu è molto diversa: ogni essere vivente ritorna sulla terra un numero incalcolabile di volte, in una catena (samsara) che lo lega all'esistenza. L'importante è trovare una via per affrancarsi da questa schiavitù. Il mondo materiale non è da migliorare, ma da trascendere. Alla luce di questa visione, nessun pensiero, opera o gesta è unica: è già avvenuta migliaia di volte; l'azione individuale perde di importanza. Pertanto solo da poco tempo una "coscienza storica" è penetrata in India. Quando si parla di avvenimenti remoti, come quelli che tratteremo, la datazione è estremamente incerta. Il saggio Patanjali, colui che codificò lo yoga in modo sistematico, è collocato in un arco di tempo che va dal V secolo a.c. al V d.c.! Un altro effetto di questa visione è estremamente affascinante: l'India è calata in un eterno presente. I miti più antichi, come quelli narrati nel Mahabharata o nel Ramayana (poemi epici classici), appaiono agli indiani contemporanei reali e attuali come gli avvenimenti accaduti il giorno prima...
Gli Arya
Circa 5000 anni fa vi furono delle misteriose migrazioni, che
probabilmente iniziando dalle sterminate steppe dell'Asia centrale
si espansero in varie direzioni, verso il Danubio, il nord Europa,
giunsero a sud-est verso le rive del Gange. Ne erano protagoniste
alcune tribù nomadi che avevano in comune oltre la lingua anche le
stesse strutture sociali, economiche, religiose e chiamavano sé
stessi "Arya", i nobili congiunti. Questi spostamenti, più che da
testimonianze storiche sono dovute alle ricostruzioni dei
glottologi, i quali riscontrarono parole di origine comune sia nelle
lingue europee che in quelle indiane e chiamarono questi nostri
lontanissimi progenitori indo-ariani.
I popoli arya erano allevatori e si spostavano a piedi, a cavallo o
su carri trasportando con sé il loro tesoro: il bestiame. Attraverso
gli alti valichi dell'Afghanistan si riversarono nella fiorente
valle dell'Indo (attualmente in Pakistan) ed in breve tempo
decretarono la fine della millenaria civiltà che ivi fioriva. Gli
abitanti della valle dell'Indo praticavano scambi e commerci con
fenici, assiri, babilonesi, ed avevano sviluppato una scrittura che
rimane tuttora misteriosa. Negli scavi archeologici di Harappa e
Moenjo Daro, le città principali di questo regno, furono rinvenute
le prime testimonianze di una pratica psico-fisica affine allo yoga:
alcune formelle con un immagine di un proto-Shiva in posizione del
loto. Ma queste città nascondono altre peculiarità: un impianto
urbanistico unico e perfetto. Contrariamente a quanto avviene
normalmente negli scavi, in cui in strati più profondi del terreno
si ritrovano fondamenta sempre più antiche su cui sono stati
edificate costruzioni più recenti con piante diverse, in Harappa e
Moenjo Daro il piano delle costruzioni non è mai stato modificato
fin dalle sue lontane origini: ogni edificio veniva ricostruito
sempre identico; mai una via o una piazza venne cambiata: le guide
mostrano le fondamenta di palazzi che per 2000 anni furono sempre
identici... fino all'arrivo degli Arya.
Probabilmente la civiltà della valle dell'Indo si stava già
avvicinando al tramonto, il deserto incalzava e quando gli abitanti
non contrastarono più la sua avanzata, esso prese lentamente ad
avanzare. Le orde degli arya avevano inoltre due efficaci strumenti
di guerra ignoti ai vallindi: i cavalli e armi di ferro. In pochi
anni questa civiltà venne sopraffatta e le splendide città di
mattoni cotti al sole rase al suolo. Gli arya continuarono la loro
avanzata, tra roccia e deserti, fino a giungere tra il 2500 e il
1550 a.c. lungo le fertili rive del Gange. Lì iniziarono un lento
processo di sedentarizzazione e affiancarono alle loro occupazioni
tradizionali pastorizia e caccia anche l'agricoltura. I vari clan
cominciarono ad entrare in lotta tra di loro per il predominio. Di
questo antico periodo purtroppo non restano palazzi o monumenti,
perché gli arya costruivano le loro città in legno, la cui durata è
effimera.
Le credenze religiose
Essi credevano nelle forze cosmiche, nelle loro manifestazioni più
evidenti nella natura, come in quelle più sottili nel mondo
immanifesto. I loro dei principali erano Ushas, fanciulla rosata
dell'alba; Agni, il rosso fuoco;Varuna, il dio del vento; Surya, il
disco splendente del sole trainato su un cocchio dorato da cavalli
bianchi; Indra, il tempestoso re degli dei. Essi divennero il nucleo
di quella che sarà la religione Vedica. Una complessa liturgia
incentrata sul sacrificio regolava l'interagire delle forze, in una
sorta di iconografia cosmica dove il sacerdote era il sommo regista.
Agli dei venivano versate nel fuoco offerte gradite, e la mucca,
grande ricchezza del popolo nomade, era l'elemento indispensabile
per il rito, sia perché all'inizio veniva immolata essa stessa in
modo cruento, poi in tempi successivi si usarono oblazioni di latte,
burro, sterco e cibi a base dei prodotti della mucca. Essa era anche
data in pagamento al sacerdote al termine del rito.
Gli Arya ritenevano che ci fosse una sostanziale corrispondenza fra
microcosmo (uomo) e macrocosmo (universo) e il sacrificio aveva il
compito di mantenere la delicata armonia tra queste componenti.
Centrale è la legge del dharma, l'ordine universale, in cui ogni
entità, dal più piccolo essere vivente alle stelle agli stessi dei
hanno una precisa collocazione nell'universo manifesto. Vi era una
sostanziale positività e certezza, e i committenti dei riti
chiedevano potere, ricchezza, bestiame, figli e lunga vita. I
bramani erano il vaso comunicante tra gli uomini e gli dei. Solo
essi potevano compiere i sacrifici, intonare i canti in sanscrito,
la lingua sacra o compiere i gesti liturgici.
Oscura è l'origine della teoria della reincarnazione. Forse essa è
dovuta all'osservazione della ciclicità della natura, in cui il
ripetersi delle stagioni, del giorno e della notte, della veglia e
del sonno (spesso paragonato alla morte), suggerivano una nuova
nascita. Anche l'inconscia paura del futuro, l'impossibilità di
spiegarsi la crudeltà della vita, la fragilità del destino umano
contribuirono a maturare questa visione. Probabilmente confluirono
in questa nuova dottrina le credenze religiose autoctone e animiste,
con elementi pre-arya o an-arya, che spiegavano come nell'uomo il
desiderio produca il karman, l'agire che porta frutto e la somma
delle azioni passate che segnano il destino della vita futura.
La sedentarizzazione creò probabilmente una profonda frattura
inconscia nelle popolazioni che fino ad allora erano nomadi o
semi-nomadi, e le certezze del periodo vedico nell'efficacia del
sacrificio si stemperarono in visioni disperanti e pessimistiche;
alla richiesta di beni materiali si sostituì la ricerca della
libertà dal samsara, la catena delle rinascite. I riti diventarono
sempre più fastosi e cruenti, il potere dei bramani aumentò
smisuratamente, e la liturgia finì per trasformarsi in vuoto
ripetersi di gesti rituali. Il contrasto con la semplice religiosità
popolare e indigena era stridente, come pure la distanza tra le
caste dominanti e quelle inferiori.
Il VI secolo a.c. fu senz'altro cruciale in questo mutamento di
orizzonte, ben al di fuori dei confini dell'India. Nacquero grandi
spiriti, quali Buddha e Mahavira in India, Pitagora e Talete in
Grecia, il profeta Ezechiele in Palestina, Zoroastro in Persia,
Lao-tze e Confucio in Cina.
Spiriti acuti e inquieti, asceti, mendicanti affollarono le strade e
le foreste del subcontinente indiano, ricercando nel silenzio e
nella rinuncia le risposte alle domande più angoscianti sul fine
ultimo dell'uomo. Probabilmente fu proprio la condotta non-violenta
degli asceti, i quali avevano un enorme ascendente sulla
popolazione, a provocare un mutamento nella condotta dei bramani.
Infatti essi fecero propria la dieta vegetariana e vi fu un profondo
mutamento nei riti che da crudeli sacrifici di animali divennero non
violenti e simbolici.
Radicale fu anche il mutamento del rapporto con le divinità. Fino ad
allora solo i sacerdoti ne erano i mediatori; ora gli asceti
rivendicarono un rapporto diretto tra atman (anima individuale) e
brahman (l'assoluto senza attributi), fino alla completa
identificazione nel brahman stesso, l'estinzione nell'unità che pone
fine alla dolorosa serie delle rinascite, sintetizzato nel mantra
tat tvam asi, "tu sei quello".
Erano state gettate le base per una nuova spiritualità, al sorgere
del Buddismo, della religione Jaina, ad opera del Mahavira e più
avanti nell'evoluzione della religione vedica in quello che oggi,
con un termine un po' semplicistico, chiamiamo induismo.
Le caste
Il termine "casta" deriva dal latino castus, puro. Esso sintetizza
in modo efficace ciò che la casta ha rappresentato e tuttora
rappresenta in India. Il termine sanscrito è varna (colore), forse
perché le popolazioni arya erano di carnagione chiara, in contrasto
con quelle autoctone, scure di pelle o jati, nascita. Probabilmente
furono gli invasori a introdurre le caste in India in cui essi,
guerrieri e sacerdoti, si posero al vertice, mentre le popolazioni
indigene divennero gli strati inferiori. Ma forse anche l'ancestrale
civiltà contadina pre-arya ben si adattava a questa struttura. Un
inno del Rg Veda, databile circa nel 1500 a.c., indicava che dallo
smembramento dell'uomo cosmico, Purusha, erano sorte le caste: dalla
bocca i bramani, dalle braccia i guerrieri, dalle cosce artigiani e
agricoltori e dai piedi i servi. Al livello zero della scala
gerarchica vi sono i fuoricasta, o intoccabili per nascita o perché
decaduti a causa di aberrazioni rituali o per matrimoni misti,
(chiamati paria dai portoghesi, dal nome di una delle loro
corporazioni), e harijan. "figli di Dio"da Gandhi, che si battè
strenuamente per la loro abolizione. Le quattro caste classiche
esistono solo a livello ideale; in quello pratico ben presto si
frammentarono in sottocaste e diramazioni territoriali che assunsero
rapidamente un valore ben maggiore della casta stessa. Sembra che le
sotto-caste siano circa tremila.
Probabilmente all'inizio l'appartenere ad una determinata casta
dipendeva dalle proprie attitudini personali, ma con il passare del
tempo esse si sclerotizzarono in una struttura rigida,
esclusivamente legata alla nascita. Le caste, pur nelle aberrazioni
che ne derivarono, si adattavano perfettamente a due concezioni
cardine del pensiero indiano: il dharma e la purezza. Il dharma o
ordine universale si manifesta nella civiltà umana con l'armonia
delle varie funzioni e con la certezza della propria collocazione
nel contesto umano dovuto alla nascita ed alla professione svolta.
La purezza è il vero centro nodale e la giustificazione
dell'esistenza delle caste stesse e l'ossessione del l'hindu
ortodosso. L'impurità è dovuta particolarmente ad alcune
professioni, quelle che portano in contatto con secrezioni
fisiologiche (lavandai, spazzini, pulitori di latrine, barbieri,
ecc), con la nascita e con la morte (levatrici , becchini), con
animali morti e particolarmente con le vacche morte. Tutte queste
professioni impure possono essere svolte solo da fuoricasta, che
quindi sono indispensabili per mantenere la purezza delle caste
superiori. Infatti come potrebbe mantenere la sua purezza un bramano
se dovesse lavarsi gli abiti, spazzare le strade, spostare carogne
di animali? In effetti la vita del bramano e regolata da tali e
gravose regole relative alla purezza da porlo in una posizione di
estrema fragilità.
La vacca è il simbolo della dicotomia tra puro/impuro. Patrimonio
del nomade, è fonte di vita insostituibile per i suoi prodotti: il
latte, il burro indispensabile per le cerimonie e l'alimentazione,
lo sterco (principale fonte di combustibile), vennero considerati
sacri e oggetto principale del sacrificio, fino a venire
indissolubilmente legati al bramano stesso. L'uccisione di una mucca
era un crimine incancellabile, pari all'uccisione di un bramano.
Ecco quindi l'orrore per professioni come il macellaio o il
costruttore di tamburi, che viene in contatto con la morte della
vacca.
La professione non è quindi una libera scelta, ma retaggio del
proprio gruppo di appartenenza. Questa rigida suddivisione aveva
portato ad una altissima specializzazione, paragonabile a quella
raggiunta dalle nostre corporazioni medioevali. La cellula
fondamentale della società hindu è il villaggio, che per motivi
geografici e climatici deve essere autonomo. In esso c'è una jati
dominante, che non corrisponde necessariamente con la più elevata
dal punto della purezza. Essa esercita il potere sulla terra e le
altre ne sono in rapporto clientelare: ricevono pagamento per il
loro lavoro specializzato non in denaro ma con frutti della terra o
il suo usufrutto: in questo traggono la loro assicurazione e il
cerchio si chiude.
Anche le regole endogamiche e alimentari sono molto rigide. I
matrimoni (specialmente il primo, nel caso di poligamia, ammessa
fino a pochi decenni fa), devono essere tra membri della stessa
casta. Questo perché la prima moglie assiste lo sposo nei riti;
quelli successivi, possono essere un poco meno rigidi, ma una donna
non può mai sposare un uomo di casta inferiore, pena il decadere suo
e dei suoi figli a fuoricasta. Per assicurare alle figlie un
matrimonio vantaggioso (dal punto di vista castale) a volte vengono
pagate doti altissime.
L'assunzione di cibo è una altra possibile fonte di polluzione: il
cibo crudo è puro, mentre quello cucinato, entrando in contatto con
l'uomo può venire contaminato. Pertanto quando l'hindu ortodosso
mangia fuori della sua ristretta cerchia familiare, per matrimoni,
banchetti, ecc., ha bisogno di alte garanzie: il cuoco deve essere
un brahmano, il cibo cotto nel ghi (burro purificato) e purificato
attraverso altre pratiche. Pure l'assunzione dell'acqua non è esente
da rischi: può essere accettata solo se offerta da un membro della
stessa casta o superiore.
La casta è esclusiva per quel che riguarda la nascita o la
professione, ma estremamente tollerante rispetto alla religione,
sempre che non contrasti con le regole interne, al contrario della
setta religiosa, tollerante sulle origini dell'individuo ma
assolutamente esclusiva per il credo religioso.
Il rapporto tra sacralità e potere è sempre stato molto forte: il
bramano è il detentore del sacro, ma proprio a causa di ciò, gli
sono precluse molte professioni; mentre i guerrieri detengono il
potere temporale e l'usufrutto della terra. Essi mangiano carne,
fanno uso della violenza, ma attraverso pratiche di purificazione e
continue donazioni ai brahamni riscattano le loro azioni. Il bramano
unge il re, lo consiglia; il re protegge e sostiene i brahmani.
L'equilibrio fra sacro e potere è così raggiunto.
Le caste appaiono statiche ed immutabili, ma membri di classi
inferiori assumono atteggiamenti ed abitudini di quelle superiori,
sperando così in un avanzamento nella piramide, mentre i fuoricasta
premono per accedere anche loro ad un minimo riconoscimento, in un
lento ed inarrestabile movimento interno. Sebbene virtualmente
cancellate con l'indipendenza dell'India, le caste hanno ancora una
fortissima valenza, specialmente nelle campagne e nei villaggi.
Piccola biblioteca:
· - Siddharta, Herman Hesse, ed. Adelphi (romanzo)
· - Lo yoga, Marilia Albanese, ed. Xenia (saggio)
· - La mia India, Folco Quilici, ed. Mondatori (memorie di viaggio)
· - Homo hierarchicus, il sistema delle caste e le sue implicazioni,
L.Dumont, ed. Adelphi (saggio)
· - L'Induismo, Pio Filippo Ronconi, ed. Tascabili Newton (saggio)