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Introduzione alla filosofia indiana:
i sei darshana

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LE RADICI DEL PENSIERO FILOSOFICO
di Michel Hulin
I SISTEMI FILOSOFICI DELL'INDIA
MÌMÀMSÀ -VEDANTA -SÀMKHYA
YOGA – VAISESICA - NYAYA


DOMANDA: Che cosa sono i dashana?

I darçana sono la filosofia dei bràhmani e costituiscono l'espressione filosofica della casta bràhmanica, al tempo stesso nella sua diversità apparente e nella sua unità profonda, ma per comprendere bene di che si tratta, forse è opportuno fare un breve richiamo storico. Riportiamoci un istante col pensiero a un'epoca situabile all'incirca verso l'inizio dell'era cristiana. A quell'epoca i movimenti religiosi, che si sono sviluppati intorno a un nucleo monastico, come il buddhismo e il jainismo, già da parecchi secoli hanno costruito grandi monasteri, con annesse scuole, hanno istituito regole di discussione e grazie ad esse hanno elaborato una terminologia tecnica, una concettualizzazione relativamente affinata.
Per contro, dal lato del bràhmanesimo, la situazione è caratterizzata dall'esistenza di una vasta letteratura, ma sempre essenzialmente religiosa: tutto il corpus vedico, da un lato, comprese le Upanishad e, dall'altro, la letteratura speculativa, che si innesta sulle grandi epopee, il Mahàbhàrata, in particolare, di cui la celebre Bhagavad Gìtà non è che un frammento, e altri testi ancora. In tutta questa letteratura noi troviamo naturalmente molti materiali per una possibile filosofia, cosmogonie, identificazioni mistiche tra il sacrificio, la persona e il cosmo, racconti di esperienze spirituali, miti soteriologici di ogni tipo, ma ciò che manca ancora è la concettualizzazione, la ricerca di una certa sistematicità, la produzione delle prove, sicché i bràhmani, a una certa epoca, hanno dovuto avvertire questa mancanza, e si può pensare che i darçana si sono formati sulla base dei sùtra - quei versetti mnemonici, che sono come i segnavia di una dottrina - e che si sono costituiti a una data che non è possibile fissare con troppa precisione, ma che per ciascuno di loro si colloca circa all'inizio dell'era cristiana.
 
DOMANDA: Come prendono forma i darshana?
La genesi dei darçana è assai singolare e rivelatrice. Bisogna dire innanzi tutto che il termine stesso darçana si può tradurre letteralmente con "modo di vedere" o "punto di vista". Dapprima i darçana sono dei punti di vista particolari sulla realtà, che, in quanto tali, non sembrano escludersi reciprocamente, ma piuttosto essere complementari. Ora, questa relazione di complementarità, che più tardi, in età classica, costituirà un problema, è propria dei darçana ai loro inizi, ciascuno dei quali sembra incominciare sotto il segno di una tecnica particolare.
Per fare un esempio di darçana, di cui parlerò piu' avanti, la mìmàmsà, che è una specie di esegesi del rituale, è cominciata appunto nel prolungamento delle esegesi vediche antiche, come un metodo sistematico per interpretare i testi vedici, piuttosto che affidarsi all'ispirazione individuale.
Un altro esempio è il Nyàya, letteralmente "metodo per dirigere il pensiero", che ha preso forma sotto le specie di una determinazione più precisa dei criteri ai quali ogni ragionamento doveva soddisfare per essere accettabile, cioè non comportare contraddizioni e produrre la persuasione negli uditori cui era destinato. E' evidente che il Nyàya all'origine non si spiega che nella prospettiva di dibattiti essenzialmente orali, che i bràhmani sempre più dovevano sostenere contro i rappresentanti di filosofie esterne al loro ordine, essenzialmente i buddhisti e i "jaina", di cui ho già detto che erano in vantaggio su di loro, da questo punto di vista.
Si potrebbero moltiplicare gli esempi: ogni volta ritroviamo lo stesso fenomeno. Allora l'evoluzione successiva è stata questa: muovendo da un inizio relativamente tecnico e specializzato, ogni darçana secondo una necessità iscritta nella cosa stessa, cioè secondo la naturale interconnessione di tutti i problemi della filosofia, ogni darçana dunque si è esteso molto al di là dei suoi interessi iniziali.
Per esempio il Nyàya non si è accontentato di restare una semplice logica, è diventato una teoria della conoscenza, una psicologia, perfino un'etica e la stessa evoluzione si è prodotta per ogni altro darçana. Dunque a poco a poco in un intervallo di due, tre o quattro secoli, i darçana sono diventati delle filosofie a pieno titolo e da quel momento era inevitabile che entrassero in conflitto gli uni con gli altri. La loro complementarità iniziale è stata un po' obnubilata ed entriamo con il V, VI e VII secolo, in quella che è considerata l'età d'oro del pensiero filosofico indiano, l'età in cui infuria il dibattito filosofico, da una parte dei darçana fra loro, dall'altra dei darçana che fanno fronte comune contro gli avversari esterni, buddhisti, "jaina" e scuole materialistiche. Ecco in prima approssimazione la linea evolutiva dei darçana, almeno nell'età classica.

DOMANDA: Ci può illustrare i contenuti dei darçana, a cominciare dalla prima coppia, Mìmàmsà e Vedanta?
Sì, lei parla di coppia. Per capire questa espressione non sarà inutile una breve messa a punto storica. Si riscontra infatti che un po' più tardi nel tempo, "grosso modo" intorno all'inizio del II millennio della nostra era, il dibattito filosofico ha cominciato a rinnovarsi, in modo meno evidente che per il passato, nel senso che le posizioni dottrinali si sono fissate e d'altronde i grandi avversari dei bràhmani, che a lungo avevano stimolato la loro inventività speculativa, cioè i buddhisti, per ragioni storiche, che non posso prendere in esame qui, sono scomparsi dalla scena. A quel punto i bràhmani si sono ritrovati praticamente senza interlocutori esterni e a poco a poco si è fatta strada l'idea che c'era in comune tra loro più di quanto non fosse apparso nelle epoche anteriori.
Si entra allora in una età più propriamente scolastica, in cui predomina la sistematizzazione, in cui si classificano le dottrine per affinità, e assai presto si è imposta una classificazione dei darçana in sei sistemi fondamentali o piu' esattamente in tre gruppi di due sistemi ognuno, cioè da una parte il Sàmkhya e lo Yoga, dall'altra la Mìmàmsà e il Vedanta e infine il Nyàya e il Vaisesika.
E' a cominciare dal XII, XIII secolo circa, che questo modo di considerare i darçana è diventato in un certo senso canonico. Più tardi ancora, d'altronde, i bràhmani cominceranno a produrre testi in una certa misura paragonabili alle nostre enciclopedie o alle nostre storie della filosofia, cioè passeranno in rivista tutte le dottrine filosofiche possibili, classificandole in un ordine di adeguazione crescente alla verità. Quindi metteranno in basso le dottrine estranee al loro universo bràhmanico, materialistiche, "jaina", buddhistiche, eccetera, e i darçana stessi saranno classificati in un ordine gerarchico, culminante nel vedanta, considerato a quell'epoca come il più bel fiore, come il compimento insuperabile del pensiero bràhmanico. Questa è la cornice. Partendo di qua possiamo addentrarci nel contenuto dottrinale proprio di ciascun darçana.
 
DOMANDA: Consideriamo dunque la prima coppia: Mìmàmsà e Vedanta.
Sì, io penso che è abbastanza logico considerare, come prima coppia, quella formata dalla mìmàmsà da un lato e dal vedanta dall'altro. Bisogna dire d'altronde che la mìmàmsà e il vedanta sono considerati l'una come la "mìmàmsà antica" o "prima mìmàmsà" e l'altro come "seconda mìmàmsà" o "mìmàmsà ulteriore". Ciò che hanno in comune essenzialmente è il riferimento quasi esclusivo al Veda, all'autorità del Veda.
Si presentano entrambe come esegesi del corpus vedico, semplicemente con una diversa specializzazione, di cui renderemo conto in seguito. In ciò che concerne la mìmàmsà in senso proprio o "prima mìmàmsà", la sua genesi si situa sul diretto prolungamento di interpretazioni dei testi vedici, di cui i bràhmani avevano pratica già da parecchi secoli. Ma vengono introdotte alcune regole del gioco, sistematizzate le pratiche anteriori. A questo scopo la mìmàmsà si dedica a un immenso lavoro di classificazione degli enunciati del Veda. Ritenendo che l'intero corpus vedico possa essere analizzato in diversi tipi di enunciati, come per esempio "vidhi", cioè le prescrizioni, "sedha", le interdizioni, le denominazioni, i mantra, cioè le formule rituali e infine i testi esplicativi delle ingiunzioni e delle interdizioni. In un certo senso, è vero, questo minuzioso lavoro di analisi del testo vedico non è ancora di per sé filosofia, ma lo diventa a poco a poco, grazie alle discussioni, alle polemiche che la mìmàmsà è portata a sviluppare contro le altre scuole. In particolare ciò che la spinge a quelle polemiche è il suo principio fondamentale, secondo cui il Veda è una entità eterna, che non ha bisogno di essere rivelata da una figura divina, che in qualche modo si autorivela. E questo porta la mìmàmsà alla straordinaria e singolarissima tesi del carattere naturale ed eterno dei suoni del Veda. Beninteso si tratta di una affermazione del tutto trascendente rispetto ai limiti dell'ordinaria esperienza sensibile. La mìmàmsà deve costruire allora una specie di metafisica della parola, nei termini della quale si sforza di far comprendere come l'enunciazione temporale, in successione, delle parole vediche da una parte, e dall'altra la nostra comprensione di quelle parole, che si sviluppa a poco a poco, nell'ordine del tempo, non contraddice a una specie di presenza statica e massiccia e integrale dei suoni del Veda.
La mìmàmsà è dunque portata a una riflessione sulle strutture, sui meccanismi ontologici, si potrebbe dire, che intervengono perchè non sia rivelato della totalità dei suoni del Veda, presente ad ogni istante, se non ciò che è immediatamente utile a colui che pronuncia o a colui che ascolta e comprende determinate parole vediche. Quest'idea l'ha portata ad ogni sorta di polemiche sul linguaggio in generale, da una parte con altre scuole bràhmaniche, come il Nyàya, di cui parleremo piu' avanti, e dall'altra con le scuole extra-bràhmaniche, che non ammettono affatto quei presupposti. Dunque in questo modo la mìmàmsà è condotta, forse contro le sue stesse intenzioni, a costituire una dottrina di ciò che poi si è chiamato dappertutto i "pramana", cioè le norme della retta conoscenza. Allora naturalmente, se per essa il Veda è il "pramana" per eccellenza, la conoscenza retta per eccellenza, la mìmàmsà deve, malgrado tutto, far posto a ciò che ci dà accesso, alle forme, per così dire, mondane o empiriche della conoscenza, in primo luogo alla percezione, e poi all'inferenza fondata su dati della percezione, e poi ancora ad altri mezzi di conoscenza, che essa distingue, come la supposizione necessaria, la constatazione d'assenza, eccetera.
Noi non possiamo entrare nei particolari di queste discussioni della mìmàmsà. Ciò che possiamo tener fermo è che, al di là della sua specificità, essa ha gettato le basi di una teoria della conoscenza, di una teoria del linguaggio, di una epistemologia, e che, in particolare, essa ha spinto, forse più lontano di quanto non fosse stato mai fatto, non soltanto in India, ma, pare, in qualsiasi altra parte del mondo, la pratica della esegesi sistematica. Essa ne ha fissato parecchi punti, come, ad esempio, il ruolo che ha la posizione di una parola nella frase, ha elaborato una teoria del contesto, che permette di dare ad enunciati formalmente identici significati diversi in funzione della differenza dei concetti e inversamente, eccetera. Quindi ha fornito uno strumento dialettico e concettuale notevole ai suoi stessi avversari, ma parallelamente ha funzionato come ideologia capace di fondare la preminenza della casta bràhmanica, poichè presenta elementi che si collegano tutti tra di loro: l'autorità del Veda con il carattere "apauruseya", cioè l'origine non umana del Veda, e col primato della casta bràhmanica, come depositaria privilegiata del sapere vedico, tanto sul piano del rituale, quanto su quello della conoscenza. Questo, mi sembra, può bastare per una prima caratterizzazione della mìmàmsà.

DOMANDA: E il vedanta?
Il vedanta è la "seconda mìmàmsà". Qual è inizialmente il suo rapporto con la "prima mìmàmsà"? Bisogna dire che la "prima mìmàmsà" presa per sé sembra bastare a se stessa e non si oltrepassa verso uno sviluppo ulteriore. Ma bisogna anche segnalare a questo proposito che in fondo la "prima mìmàmsà" resta chiusa a tutto un versante del pensiero religioso, del pensiero vedico anteriore, nel senso che riduce tutto ai sacrifici, al rituale, alla meccanica che porta dall'atto sacrificale alla retribuzione del sacrificio. Ma è del tutto chiaro sia per noi sia per gli Indiani che il corpus vedico non si esaurisce, non è riducibile a una serie di prescrizioni e di interdizioni o di commenti al sacrificio.
In particolare in un segmento del corpus vedico, quello costituito dalle celebri Upanishad, incontriamo degli enunciati, che sono fondamentalmente refrattari alla classificazione operata dalla "prima mìmàmsà". Sono gli enunciati cui possiamo provvisoriamente apporre l'etichetta di "mistici", cioè tutti quegli enunciati che riposano in un modo o in un altro su una identificazione o su una possibilità di identificazione tra la persona umana e il cosmo. Beninteso l'archetipo di quelle formule vediche, che vanno al di là della logica del sacrificio, è fornito da quelle che si chiameranno piu' tardi le "grandi parole" o "mahavakya", come il celebre "tat tvam asi", "tu sei questo". "Anche tu sei questo", dice il bràhmano Udalaka Aruni a suo figlio Svetaketu, tu nella tua realtà psicologica attuale sei, senza saperlo, identico al principio ultimo, all'origine dei fenomeni, che è il "bràhman", termine che d'altronde la mìmàmsà conosce, ma non conosce che sotto la forma di ciò che fonda in ultima istanza l'efficacia del sacrificio. Dunque questa possibilità di creare corto circuito col sacrificio, questa possibilità di entrare in relazione diretta e al limite in una relazione di identificazione con il "bràhman", senza passare per il sacrificio, questa possibilità è ignorata, trascurata o negata dalla mìmàmsà, ed è stata vocazione della "seconda mìmàmsà" farsene carico. D'altronde il nome stesso di vedanta dice già questo: vedanta significa "veda anta", fine del Veda o cambiamento del Veda. Spendiamo qualche parola sulla genesi del vedanta. Questa genesi si determina a partire da quello che si chiama "prastana traya" "tripode", triplice punto di partenza, dei quali l'uno è fornito dalle stesse Upanishad, il secondo dalla Bhagavad Gìtà, che sarà interpretata in questa prospettiva, forse non senza una certa forzatura del testo, e il terzo da una prima raccolta di sùtra, che si chiama "Brahmasutra", aforismi mnemonici sul "bràhman", attribuiti a un certo Badarayana, che sarebbe vissuto intorno al I secolo della nostra era e di cui non sappiamo molto. Non ho parlato poco fa dei sùtra della mìmàmsà di Jaimini, loro autore presunto, la cui situazione è per qualche verso simile, ma ciò in fondo ha un'importanza secondaria. Ciò che si è prodotto nei primi secoli della nostra era, è l'inizio di una letteratura di commenti imperniati sulle Upanishad, sulla Bhagavad Gìtà, sui sùtra, ma - fenomeno che ritorna a più riprese nell'India antica - quei primi commentatori bràhmanici oggi non sono più per noi che dei nomi, perchè più tardi, esattamente verso la metà dell'VIII secolo d.C., è sopraggiunto un commentatore le cui qualità eccezionali, la cui penetrazione e sistematicità hanno contribuito a eclissare totalmente gli altri, al punto che i loro commenti non erano più ricopiati nei manoscritti.
Praticamente per noi il vedanta, nella sua forma classica, nella sua forma di sistema filosofico a pieno titolo, riceve il maggiore impulso dalla personalità di questo commentatore fuori del comune, cioè l'illustre Çamkara, di cui non conosciamo le date esatte, ma che è vissuto ed è fiorito non si sa bene dove intorno alla metà dell'VIII secolo. Si potrebbe aggiungere pure il suo predecessore Gaudapada, autore di stanze in versi su una Upanishad, ma l'essenziale della dottrina risale a Çamkara. Qual è la forma che Çamkara ha dato inizialmente al vedanta? Dapprima due parole sulla sua opera, commento dei "Brahmasutra" da una parte, della Bhagavad Gìtà dall'altra e infine delle Upanishad vediche maggiori. Il punto di partenza di Çamkara è precisamente in quelle "grandi parole" che la mìmàmsà non era in grado di integrare in modo significativo: il "tat tvam asi". Allora è evidente che il suo problema filosofico è già segnato da questo punto di arrivo - problema filosofico che consiste nel mostrare, nel far comprendere la possibilità stessa di una tale identificazione. Abbiamo le due estremità di una catena, assai lontane l'una dall'altra, che devono ricongiungersi. Da un lato, sulla base dell'autorità incondizionata del Veda, dobbiamo porre l'identità assoluta dell'anima individuale o dell'àtman col "bràhman", dall'altra partiamo dalla nostra esperienza umana, del tutto limitata, condizionata, nella quale niente ci permette di dare un significato intuitivo a quella identità, e si può dire che tanto sul piano della speculazione dottrinale, quanto sul piano delle pratiche spirituali che promuove, Çamkara si assegna come compito di rendere possibile la riduzione e al limite l'abolizione di quello scarto. Dunque sul piano speculativo incontriamo una teoria che mira a spiegare perché l'unità assoluta di tutte le cose nel "bràhman", che è di diritto, non è immediatamente avvertita come tale da noi nella percezione, dove abbiamo a che fare con un mondo apparentemente multiforme, sicché il principio spirituale, il "bràhman" sembra disperso in una quantità, in una miriade infinita di esseri umani, di animali, eccetera. Che cosa può spiegare questa dispersione del "bràhman"? Si fa intervenire qui la teoria della maya o dell'illusione cosmica, detta anche dell' "avidya" o del misconoscimento della propria natura, in cui ogni anima individuale incorre. Non possiamo entrare qui nei particolari, che sono forniti meno da Çamkara stesso che dalla sua scuola, dai numerosi successori, che perfezioneranno il suo sistema nelle età successive. Ciò che si può dire è che egli elabora già una dialettica con cui tenta di mostrare che l'esistenza nella sua pluralità è un fatto di cui non si può rendere conto logicamente e che quando esaminiamo la possibilità di ricostruire l'esperienza che ci fornisce la percezione sensibile, incontriamo ogni genere di contraddizioni, che sono come altrettanti segni della necessità di cercare oltre. Muovendo di qui Çamkara tenta di tracciare tutto un itinerario di pratiche, di meditazioni delle "grandi parole" vediche, che mirano a epurarle del loro significato iniziale. In altri termini si riparte dal "tat tvam asi", dal "tu sei questo", termini che sembrano incompatibili. Ma la meditazione si orienta nelle due direzioni al tempo stesso: quella del "tat", del "questo" e quella del "tvam" del "tu". Da una parte, poiché si tratta del "tat" cioè del "questo", si mostra che il "bràhman" non è quella specie di entità trascendente, misteriosa, lontana, che sembra essere ad un primo approccio, ma che c'è una specie di immanenza, di presenza del "bràhman" fin dentro le nostre funzioni mentali. Per esempio Çamkara elabora, sette o otto secoli prima di Descartes, un procedimento riflessivo sulla presenza del "bràhman" in noi, che anticipa largamente il "cogito". L'affermazione assoluta della persona, anteriore allo spiegamento dei mezzi della retta conoscenza, questa affermazione è intesa da Çamkara come il segno della presenza del "bràhman" in noi e quindi, parallelamente, il "tvam", il "tu" diventa a poco a poco oggetto di un'analisi che lo spoglierà di tutte quelle che Çamkara chiama le "upadhi", cioè le determinazioni avventizie, contingenti, che lo rivestono e che in quanto tali sembrano allontanarlo dal "bràhman". Dunque il "bràhman" interiorizzato da una parte, il soggetto individuale, spogliato delle sue particolarità dall'altra, si presentano come essenze, la cui fusione in una sola e stessa entità, appare sempre meno inverosimile. Beninteso non è questione di mera speculazione filosofica. C'è tutta una pratica spirituale di cui Çamkara ha tracciato i lineamenti essenziali che si chiamano "nididiasana" eccetera, diverse maniere infine di interiorizzare le parole vediche, fino a che ne scaturisca intuitivamente, ad un certo punto, la realizzazione della verità del "tat tvam asi", conformemente d'altronde a presupposti che debordano largamente i darçana, che sono validi anche per il buddhismo e per quasi tutto il pensiero religioso indiano. Questa presa di coscienza dell'identità dell'anima individuale e del principio che sottende i fenomeni esterni ha il valore di una conoscenza, una sfera di gnosi, che non permette più di interessarsi passionalmente agli eventi mondani, di sentirsene investiti. Di conseguenza si esaurisce la fonte del karman, di quella famosa ripercussione dei nostri atti e dei nostri pensieri su noi stessi e sulle nostre esistenze individuali. E all'individuo che è passato per questa conoscenza non resta che liquidare in qualche modo le conseguenze del suo "karman" anteriore, per conseguire quella che sarà chiamata "liberazione", cioè una misteriosa fusione col "bràhman", a proposito della quale, d'altronde, Çamkara resta nel vago, perché si ha qui a che fare con un concetto-limite, che la riflessione filosofica può in qualche modo preparare, giustificare, ma non dedurre integralmente.

DOMANDA: Si può adesso passare alla seconda coppia composta dal Sàmkhya e dallo yoga. Ci può parlare innanzi tutto del Sàmkhya?
Il termine Sàmkhya può essere tradotto con "enumerazione". Enumerazione sistematica di tutti i principi costitutivi del reale. Bisogna dire che il Sàmkhya è un sistema filosofico classico, un darçana che è stato anticipato fin nei particolari dalla speculazione protofilosofica anteriore. Certe Upanishad, il Mahàbhàrata, la Bhagavad Gìtà, d'altronde, contengono anch'esse molti elementi del Sàmkhya. Nondimeno il Sàmkhya classico prende forma, con una raccolta di stanze, "karika", attribuite ad un certo Isvarakrisna, che datano dal IV secolo d.C. Il fondamento del sistema Sàmkhya è questo: il Sàmkhya si presenta innanzi tutto come un dualismo, cioè oppone due principi metafisici irriducibili l'uno all'altro: l'uno chiamato "prakriti", con un termine che vuol dire letteralmente "procreatrice" e che abbiamo preso l'abitudine di rendere, nelle lingue europee, con "natura", "natura creatrice", a volte "natura naturans"; l'altro chiamato "purusa", termine che letteralmente vuol dire "uomo", che designa un principio spirituale, presente nell'uomo, ma anche negli altri esseri viventi e che si traduce, bene o male, ora con "Spirito" (con la maiuscola) ora con "monade spirituale" - ma in realtà non abbiamo un termine adeguato per caratterizzare questo "purusa", perché è appunto qualcosa che non ha un equivalente nel pensiero filosofico europeo. Allora che cos'è la "prakriti"? Ebbene la "prakriti" è intesa come una specie di sostanza materiale universale, la stoffa di cui sono fatti e da cui si staccano, con una sorta di sconnessione, non soltanto le realtà sostanziali che costituiscono il mondo materiale esterno, ma anche tutto ciò che, per esempio, costituisce la nostra realtà empirica di esseri viventi, così com'è osservabile dall'esterno: quindi non soltanto il nostro corpo visibile, esterno, ma altrettanto i nostri sensi, e tutto ciò che ci costituisce come soggetti viventi, attivi, che entrano in rapporto col mondo, che percepiscono, memorizzano, riflettono, eccetera. Io credo che non si insisterà mai troppo su questo punto. Se non fosse d'altro lato per la presenza del "purusa", il Sàmkhya potrebbe passare per una specie di materialismo, nel senso che mette sul conto della natura, della produttività della natura, l'insieme dei fenomeni non soltanto cosmici esterni, ma anche psicologici. In altri termini, nel momento stesso in cui parlo e in cui tento di dare, bene o male, una certa coerenza, un significato alle mie proposizioni, il Sàmkhya analizza ciò che sta accadendo in me come un insieme di fenomeni, di spostamenti di forze e di cariche in seno alla materia sottile di cui sono internamente composto. Il segno di ciò appare anche in un'altra dottrina abbastanza tipica del sistema Sàmkhya, che è la dottrina dei "guna", cioè delle qualità o degli attributi del reale. Il Sàmkhya afferma che tutto ciò che appare nell'esperienza, appare sempre il risultato di una combinazione o di un'altra, dei tre attributi fondamentali che esso distingue e che sono - dico prima i termini in sanscrito - il "sattva", il "rajas", il tamas. E' caratteristico che ognuno di questi attributi costitutivi del reale, di questi modi, attribuibili a qualsivoglia sostanza individuale, comportano tutta una gamma di significati, una specie di ricchezza semantica, che va per noi dai significati pertinenti soltanto alla sfera materiale, fino ai significati psicologici o quasi-spirituali. Se prendiamo in considerazione il "sattva", si tratta di un principio che nell'ordine della materia connota la luminosità, per esempio la luminosità di una lampada, la luminosità di un cielo chiaro, ma connota anche la leggerezza, il fatto, per esempio, che il fumo si innalza nel cielo, eccetera; ma lo stesso "sattva", su altri registri, connoterà degli stati di euforia fisiologica, come quando ci sentiamo leggeri e niente ci pesa; e a un livello più alto ancora, il "sattva" connoterà una sorta di gioia interiore, una luminosità della persona, una "bontà" (tra virgolette), degli atti che possiamo compiere. Non bisogna vedere una contraddizione in ciò, perchè il Sàmkhya, per quanto sembri un dualismo, non lo è affatto nel senso cartesiano del termine, e la sua "materia prima"è portatrice, attraverso gli attributi, di un complesso di valori che si dispongono su tutti questi registri. Quindi si potrebbe dire altrettanto dell'antitesi del "sattva", che è il tamas, letteralmente l'"oscurità" e le "tenebre". Si va dalla pesantezza della pietra che poggia sul suolo, fino all'inerzia mentale, alla stupidità e all'ebetudine di colui che, per un motivo o per un altro, è lento o contraddittorio o confuso nel suo pensiero. E infine c'è il "rajas". E' un principio intermedio tra il "sattva" e il tamas, che ne riflette appunto l'opposizione essenziale. Il "rajas" è un principio di instabilità, di tensione e perciò stesso di sofferenza. La parola "sofferenza" ci permette di arrivare nell'altro principio, del Sàmkhya e al tempo stesso alla congiunzione dei due principi. Dunque abbiamo parlato fin qui della "prakriti", della natura e del suo sviluppo, secondo quelli che il Sàmkhya chiama i "tattva", principi costitutivi del reale. Ci resta da parlare del suo antagonista, il "purusa", il principio spirituale. Dato che tutto l'elemento concreto, dinamico, significativo, nell'attività degli esseri viventi e non viventi, è dal lato della "prakrti", ne consegue che il Sàmkhya è necessariamente portato a considerare il "purusa" come un essere perfettamente estraneo ad ogni azione e ad ogni passione. In realtà il Sàmkhya si rappresenta il "purusa" come una specie di specchio, come una coscienza-testimone, come si dirà piu' tardi. Il "purusa" è spettatore del dispiegarsi della natura al suo cospetto. D'altronde la metafora dello spettatore e della danzatrice, che si produce sulla scena, è usata proprio nelle "Samkhyakarika". Se non ci fosse il "purusa", non si produrrebbe nulla, cioè dal punto di vista del Sàmkhya quella danza della natura, quel dispiegamento da parte della natura di ciò che è in lei racchiuso, dei principi costitutivi del reale, non si produrrebbe. Non si produce che nella misura in cui natura e spirito entrano in congiunzione l'una con l'altro e il modello, il filo conduttore per studiare quella congiunzione è naturalmente ciò che noi chiamiamo l'unione dell'anima e del corpo. Si potrebbe anche dire in un altro senso che il Sàmkhya è una filosofia integrale che si costituisce riflettendo sul mistero dell'unione dell'anima e del corpo. Dunque l'analisi che fa il Sàmkhya è grosso modo questa: la congiunzione di due entità (quale che sia la sua causa prossima) ha sempre la sua origine in quella famosa ignoranza metafisica, in quel misconoscimento di sé, di cui ho parlato prima, riguardo al vedanta e che si ritrova, "mutatis mutandis", nel Sàmkhya. Dunque una volta ammesso quell'irrazionale, quel presupposto, il Sàmkhya analizza la condizione umana, la condizione dell'essere finito in generale, come il turbamento prodotto dall'unione di due principi metafisici, che sono radicalmente distinti l'uno dall'altro. Da una parte la "prakriti", dispiegandosi, procura, per così dire, al "purusa" strumenti per esperire il mondo, come i sensi eccetera, d'altra parte il "purusa" dimentica la sua essenza, dimentica di essere una "monade spirituale", chiusa in sé, autosufficiente, autoilluminantesi, come dirà piu' tardi anche il vedanta, crede che qualcosa gli manchi, si mostra come un essere di desiderio, come un essere volto verso il mondo, in breve si identifica con i modi della materia a cui si trova unito. Per riassumere in modo schematico, si identifica con l'organismo fisiologico e in particolare con quelle entità materiali, lo ripeto, ma certamente sottili e quasi indiscernibili, che il Sàmkhya chiama "manas", senso comune, e "buddhi", intelletto. In altri termini il "purusa" si trasforma in agente, in autore di atti, e si trasforma altrettanto in soggetto dell'esperienza affettiva. Diventa attivo, spera, crede, compie delle imprese nel mondo e subisce su di sé le conseguenze degli eventi del mondo. Il Sàmkhya riassume questa analisi dicendo che la nostra è essenzialmente un'esperienza del turbamento, della predominanza del "rajas", dunque della sofferenza. Perciò si può supporre che abbia subito all'origine un'influenza buddhista. Detto questo, è tracciata la via. Una volta fatta la diagnosi che tutta la nostra infelicità, la trasmigrazione, è causata dal fatto che entriamo in confusione con ciò che non siamo, il metodo del Sàmkhya consisterà in una riflessione che permetta al "purusa" di riprendere coscienza di ciò che è, della sua natura fondamentale e l'esperienza cruciale per lui è la "viveka", cioè la discriminazione da lui operata. In altri termini la sua relazione con la natura finisce con un ultimo percorso mentale, un ultimo esercizio delle sue funzioni mentali, al termine del quale quella relazione viene resa impossibile. Il "purusa" recupera la sua autonomia essenziale e la dottrina chiamerà questo stata "kaivalya", isolamento spirituale. Il "purusa" resta per sempre ripiegato su di sé, chiuso in sé. Ci sono qui delle evidenti analogie con il percorso del vedanta, benché nel Sàmkhya l'osservanza del Veda sia assai meno netta. Una differenza importante che si può notare di passaggio quando si descrive il "purusa" liberato, in opposizione all' àtman liberato del vedanta, è che mentre per il vedanta l' àtman è fondamentalmente uno e la sua percezione di sé, come di uno tra molti, come di uno spirito individuale, tra una moltitudine di spiriti simili, fa parte anch'essa dell'illusione, per il Sàmkhya al contrario la dispersione dei "purusa", l'infinita molteplicità dei "purusa" è una realtà metafisica insormontabile. In altri termini c'è una sola natura, una sola "prakriti" e poi una infinità di "purusa" che, abitualmente, entrano in contatto con essa, si confondono con essa, ma di cui, almeno alcuni, riescono a trovare in qualche modo un varco, l'uscita fuori del "samsara", fuori della trasmigrazione, svincolandosi dalla natura. Dunque anche nella liberazione i "purusa" resteranno ciascuno per sé e evidentemente ciò che può fare difficoltà in questo sistema è che non si sa più bene che cosa ne è della loro distinzione reciproca, dato che la loro essenza è assolutamente comune. Questo è quello che si può dire.

DOMANDA: Professor Hulin, che cos'è lo "yoga"?
Vedrei lo "yoga" come un sistema gemello del "samkhya" o come complementare. E' certo in ogni caso che parecchie nozioni cardinali in cui si articola il "samkhya", sono ammesse anche dallo "yoga": il purusa, la prakriti, i guna, eccetera. Si può dire che in un certo modo la metafisica del "samkhya" è alla base di quella dello "yoga". Allora perché un altro sistema? Probabilmente perchè il "samkhya" è restato sempre una operazione essenzialmente intellettualistica e teorica e forse non era in possesso dei mezzi necessari per guidare i suoi adepti verso il fine che indicava loro, cioè la disgiunzione del "purusa" dalla natura e il conseguimento dello stato di isolamento spirituale o "kaivalya".
Questo avviene perché il "samkhya" fondava tutto sulla conoscenza della dottrina, l'enumerazione dei principi, la realizzazione soltanto intellettuale, visto che per sua stessa essenza il "purusa" non poteva avere niente in comune con la natura. Evidentemente c'è una distanza notevole tra l'assimilazione intellettuale di una dogmatica di quel genere e l'applicazione del principio della disgiunzione nel concreto, nella serietà e nello spessore dell'esistenza. Ogni sorta di ostacoli si oppongono a una tale presa di coscienza.
Si può dire che lo "yoga", o almeno il sistema classico dello "yoga", come ci è trasmesso dai "sutra" di Patanjali, risponde a questo bisogno, che il "samkhya" non poteva soddisfare.
Un segno evidente ne è la modificazione - o piuttosto l'arricchimento - che lo "yoga" apporta alla teoria delle funzioni mentali e delle attività psichiche elaborata dal "samkhya". In altre parole, a fianco a quelle riconosciute dal "samkhya", come il "manas", la funzione dell'io, l'intelletto, eccetera, lo "yoga" fa posto alla citta, termine che si traduce generalmente, più o meno bene, con attività psichica
Forse quest'espressione non vuol dire molto, ma la sua funzione si chiarirà dicendo che la "citta" serve essenzialmente allo "yoga" per integrare un aspetto dell'esperienza, che il "samkhya" certo non ignorava, ma al quale non riservava una trattazione particolare. Penso a quell'aspetto dell'esperienza per cui, secondo le dottrine indiane, tutto ciò che noi produciamo in fatto di pensieri, progetti, fantasie e naturalmente i nostri atti stessi, ci modificano a loro volta per una specie di contraccolpo. In altri termini ci troviamo davanti al postulato indiano per cui non si pensa e non si agisce mai impunemente, ma si resta marcati, durevolmente impregnati dai significati e dalle intenzioni che abbiamo riposto nelle nostre azioni.
L'assunzione del "citta" da parte dello "yoga" corrisponde appunto alla preoccupazione di trovare qualcosa in cui scrivere l'impatto dell'esperienza, l'impatto degli atti e soprattutto qualcosa in cui iscrivere la dinamica ulteriore degli atti. Bisognerebbe introdurre qui alcune nozioni classiche dello "yoga" e di altri sistemi del brahmanesimo, che si chiamano "samskara" e "vasana", cioè le tracce residue, le formazioni residue, lasciate dagli atti anteriori, comprese non tanto come tracce, come residui passivi, ma soprattutto come residui, come tracce attive, propensioni e abitudini, appena abbozzate, pieghe prese, per così dire, dalla psiche, che contengono la promessa di azioni future, che andranno nello stesso senso e che lo "yoga" sistematizzerà sotto il nome di "klesa".
Ciò vuol dire che, non contentandosi della nozione troppo generale di ignoranza di sé, di "avidya" o ignoranza metafisica, come il "samkhya" classico, lo "yoga" precisa, arricchisce la nozione di "avidya", mostrando le sue specificazioni sotto forma di attaccamenti, di attaccamenti passionali, che portiamo con noi attraverso l'esperienza, e attraverso le nostre esistenze successive. Tendenze, passioni, "afflizioni", come vengono anche chiamate, hanno la funzione di attaccarci con sempre maggior forza alla "prakriti".
Quindi lo "yoga" pensa che non è possibile accontentarsi di distinzioni meramente intellettuali, che il luogo, il livello in cui i "samskara" sono iscritti è tale che le semplici distinzioni intellettuali non possono coglierli. Siamo cioè in una situazione in cui, mentre vediamo il meglio, siamo necessitati a scegliere il peggio. Lo "yoga", individuando la nozione di "citta", si propone di intervenire al livello che gli è proprio, in modo che la verità essenziale che condivide con il "samkhya" e cioè il principio della discriminazione tra "purusa" e "prakriti", come chiave della liberazione, che, secondo lo "yoga", restava nel "samkhya" un programma meramente teorico, diventa adesso raggiungibile in questa vita. Ne deriva la definizione che dà di se stesso fin dall'inizio degli aforismi di Patanjali: "yogacittavrttinirodha".
Che cos'è lo "yoga"? E' la fine, è l'arresto delle "vrtti", cioè dei movimenti incontrollati, emozionali, passionali del "citta", cioè dell'attività psichica. In un certo senso lo "yoga" è uno sforzo per immobilizzare, per neutralizzare l'attività psichica, perché in essa vede la radice di ogni resistenza, delle più profonde resistenze inconsce, all'attuazione, alla messa in opera delle verità metafisiche, mantenute dal "samkhya" su un piano puramente intellettuale.
 
DOMANDA: Quali sono le conseguenze pratiche della via yogica?
Si è ricondotti al programma proposto da Patanjali. Si tratta di un itinerario spirituale composto di otto "anga" o "tappe". Ciò che il "samkhya" in principio considera da lontano mediante la semplice discriminazione, sarà conseguito nella prospettiva yoghica progressivamente, con un avvicinamento graduale, attraverso un percorso, segnato in anticipo, che è quello degli otto "membri" o "tappe" dello "yoga". Possiamo passare rapidamente in rassegna queste "tappe".
Le prime due che si chiamano yama e niyama sono in qualche modo preparatorie alla via propriamente detta, sono cioè delle costrizioni, delle discipline, le une più di carattere sociale, le altre riguardanti l'individuo, che comportano un minimo di controllo di sé, un minimo di disciplina, un minimo di purezza, condizioni necessarie, benché evidentemente non sufficienti per qualificarsi a percorrere la via yogihca. Lo "yoga" propriamente detto comincia con la terza "tappa", ben nota in Occidente, degli asana o "posture", posture particolari alle quali il corpo deve essere piegato.
Devo dire a questo proposito che nello "yoga" classico di Patanjali, il solo di cui parleremo, e che è l'autentico complemento del "samkhya", gli "asana" o "posture", pur essendo indispensabili, non hanno lo stesso ruolo che in altre forme ulteriori di "yoga", come quella che si chiama "hathayoga". Patanjali si limita a raccomandare un certo numero di "posture" semplici, "posture" di meditazione diverse dalle posture acrobatiche, miranti a sucitare energie nel corpo e che aprono una via diversa da quella di cui ci occupiamo qui.
Bisogna dunque cominciare dall'inizio, bisogna cominciare con l'individuare l'agitazione della "vritti", sorprenderla nelle sue espressioni piu' grossolane, più immediatamente controllabili, le varie contratture in cui si irrigidisce il corpo all'insaputa dell'individuo, e che in quanto tali già esprimono quei famosi "klesa" o "afflizioni", che costituiscono l'ostacolo piu' arduo.
La terza tappa è dunque quella degli "asana". Viene in seguito qualcosa che è abbastanza noto, sotto il nome di pranayama, cioè il controllo del respiro, il prolungamento della ritenzione del respiro, sia nella fase espiratoria che in quella inspiratoria, il prolungamento del ciclo respiratorio nel suo complesso. Aanche questi esercizi non hanno il loro scopo in se stessi. Il loro scopo non si esaurisce affatto nel loro effetto fisiologico, innegabile, ma è al tempo stesso simbolico.
E' stato osservato che lo "yoga" capitalizza, in queste tecniche, secoli di osservazioni compiute dagli asceti dell'India antica, secondo le quali il turbamento interiore si traduce non soltanto nelle contratture del corpo a cui accennavo prima, ma anche nel carattere relativamente rapido e soprattutto superficiale della respirazione. D'altro canto si è compreso assai presto che l'amplificazione del ritmo respiratorio, la sua regolarizzazione aveva un'influenza positiva sul corso dei pensieri, e che il caos mentale ha qualche opportunità di diminuire, dal momento che certe sue espressioni somatiche vengono sospese. Al di là del "pranayama", che costituisce la quarta tappa, si trovano tecniche più specificamente yoghiche, tali che è difficile affrontarle senza un istruttore qualificato, sicché la loro diffusione in Occidente è assai più difficile che per le altre già citate.
Troviamo in primo luogo il pratyahara, cioè il metodo che consiste nell'allenare i sensi al distacco sistematico dagli oggetti, per fare ritorno in qualche modo sul soggetto. Si tratta di un complesso di pratiche, miranti a permettere al soggetto di "togliere la corrente", come si dice volgarmente, per non essere "bombardato" dalla massa incontrollata dei messaggi, che in circostanze ordinarie gli arrivano continuamente dal mondo sensibile. Si può procedere selezionando questo o quel senso, la vista, l'udito, il tatto, eccetera. Si possono alternare i sensi su cui questo esercizio viene praticato, ma in ogni caso si tratta veramente di uno sforzo per sostituire, in definitiva, all'osservazione esteriore o estrovertita, un'osservazione e un'attenzione rivolta verso l'interno, verso ciò che avviene nel soggetto, verso i suoi ritmi biologici e fisiologici. Per esempio è evidente che il passaggio dalla regolazione del respiro al "pratyahara" non è affatto arbitrario. L'attenzione diretta sul meccanismo del respiro si presenta in un certo modo come qualcosa che può sostituire, almeno per un po', la percezione volta all'esterno.
Da questo momento si può avanzare verso i tre ultimi stadi dello "yoga" classico, che prendono anche una denominazione comune generica, che non è il caso di riferire qui. Questi stadi sono dunque: il sesto che si chiama dharana, sforzo di fissare l'attenzione su un oggetto qualsiasi. Qui si dà un'infinita gamma di possibilità. Può essere un oggetto fisico qualunque, una foglia per esempio o la fiamma di una candela, o un'immagine divina che si contempla nella sua totalità o di cui si sceglie, mediante l'attenzione, questo o quell'attributo. Si tratta quindi di focalizzare l'attenzione sempre sullo stesso oggetto, allo scopo di evitare la dispersione della concentrazione percettiva e soprattutto la dispersione mentale, legata alla varietà degli oggetti, sui quali possiamo lasciare errare il nostro sguardo e che hanno tutti per noi un significato affettivo. Dunque "dharana" è uno sforzo per fissare certi contenuti sensibili, che poi in determinate circostanze potranno divenire più astratti, attraverso la simbolizzazione. Per esempio la famosa sillaba "om" che in un certo senso potrebbe riassumere i dogmi fondamentali dell'induismo, può costituire certo un oggetto privilegiato di concentrazione.
Il famoso "mantra", "So Ham", "io sono quello" eccetera, può essere usato anch'esso in questa prospettiva. Delle due ultime tappe di cui è difficile parlare, perché sono veramente esoteriche, perché il linguaggio comunque troppo legato alla percezione sensibile esterna, non è adatto a renderle, l'una va sotto il nome di dhyana, "meditazione continua". A un dato momento bisogna trattenere un contenuto sul quale prima si è fissata l'attenzione, senza essere piu' asserviti a un uso, sia pur minimo, dei sensi, che era la regola nello stadio precedente.
Si tratta sempre di concentrazione, ma di una concentrazione puramente interiore, una concentrazione mentale, "dhyana", che generalmente è tradotta con "meditazione continua". Si tiene fermo a un oggetto. Naturalmente si tratterà piuttosto di un oggetto astratto. Eventualmente i punti fondamentali della pratica intellettuale del "samkhya" potranno essere usati per ottenere questo effetto: si potrà avere una specie di concentrazione, per esempio, sulla distinzione essenziale del "purusa" e della "prakitri" o su altre nozioni di questo genere.
Si suppone che il "dhyana" si completi in un'ultima tappa, di tutte la più enigmatica, divisa a sua volta da Patanjali e dai suoi commentatori, in parecchi stadi - ma non potrò entrare nei particolari, - che si chiama samadhi, termine estremamente difficile da comprendere, ma di cui si può dire ad ogni modo che rappresenta la realizzazione del programma annunciato nel secondo "sutra" di Patanjali, "yogacittavittinirodha", ovvero "arresto delle fluttuazioni dell'attività psichica". In altri termini il "samadhi" è la messa in quiescenza delle funzioni psichiche, si potrebbe quasi dire la messa fuori circuito dell'attività psichica.
La vita psichica è paragonata a un oceano, senza più movimento ondoso, la cui superficie è assolutamente liscia. Giunti a questo punto si pensa che fra "purusa" e "prakriti" non succeda più nulla. Si potrebbe anche chiamare il "samadhi", proprio in conseguenza della messa fuori circuito dell'attività psichica, per cui il "purusa" arriva a coincidere con se stesso, come il ricongiungimento del "purusa" con sé.
Questo risultato non è affatto differente da quello del "samkhya", ma il metodo per conseguirlo è assai più lungo. Il "samkhya" ci propone un'ascensione abrupta, estremamente difficile, e che forse mai nessuno o pochi hanno potuto realizzare. Lo "yoga" propone di arrivare allo stesso culmine, ma aggirando la montagna dell'ignoranza, con una strada a tornanti, assai lunga e a suo modo difficile, ma non di meno più agevole dell'altra. Certo ci sono altre differenze significative, ma che si possono tralasciare qui, tranne una. Mentre il "samkhya" è radicalmente ateo, non riconosce che i "purusa" e la natura di fronte a loro, il sistema dello "yoga" classico ammette un "Isvara", un "Signore", ma lo considera in definitiva come un ideale, che lo "yoghin" propone a se stesso e che cerca di raggiungere. Questo Signore non è inteso come un creatore dell'universo, nel senso teista del termine, ma come uno "yoghin" prototipico, di "yoghin" ideale, libero in eterno, perché non ha mai conosciuto la confusione con la "prakiti". Perciò costituisce il modello cui lo "yoghin" tenta di adeguarsi, realizzandolo in sé.

DOMANDA: Ci resta da esaminare la terza coppia: nyaya e vaisesika.
"Nyaya" e "vaisesika" è la coppia forse più vicina a certi sviluppi della filosofia occidentale, sia greca che moderna, ma anche quella meno seducente ai nostri occhi di Europei. Almeno tre dei sistemi di cui abbiamo parlato sin qui, il "vedanta", il "samkhya" e lo "yoga", si presentano essenzialmente come soteriologie, dottrine nelle quali le pratiche intellettuali non hanno altro scopo che di sormontare la sofferenza e interrompere la trasmigrazione.
Al contrario questa preoccupazione soteriologica, senza essere del tutto assente, è tuttavia alquanto esteriore e tardiva negli ultimi "darsana" di cui parleremo: il "nyaya" e il "vaisesika". Tratteggiamo concisamente entrambi.
Il "nyaya" etimologicamente è l'arte di dirigere il proprio pensiero, Il "nyaya" è quindi innanzi tutto una logica, che assai presto nel corso del tempo si è ampliata in una epistemologia e anche in una psicologia. L'essenziale delle ricerche del "nyaya" verte sulla teoria della dimostrazione. Il "nyaya" da una parte si colloca nel classico quadro dei "pramana", dei mezzi della retta conoscenza, di cui abbiamo già parlato a proposito della "mimamsa". Quindi ha elaborato una teoria della percezione, ma in questo campo non è affatto originale: ha messo soprattutto l'accento sul procedimento chiamato "anumana" e che si traduce con "inferenza" o ragionamento inferenziale.
Il "nyaya" si è sforzato di codificare, di formalizzare l'"anumana". Di che si tratta? Si può dire che per quasi tutti i "darsana" classici, per quasi tutte le teorie classiche della conoscenza, nell'India brahmanica, in materia profana, cioè quando si tratta della conoscenza del mondo sensibile, la percezione costituisce veramente la base, il fondamento, e tutti riconoscono il primato della percezione. Nondimeno bisogna riconoscere che la percezione ci vincola al presente. La percezione non conduce a ciò che esisteva prima di noi e a ciò che esisterà dopo di noi e l' "anumana" in fondo è intesa come una specie di estensione sistematica della percezione, a sfere di esperienza sulle quali la percezione diretta non ha presa.
L'esempio classico sul quale il "nyaya" ha ricamato lungamente nel corso dei secoli e che ha sempre più affinato è il famoso esempio del fumo e del fuoco. Si dimostra che una montagna o una collina può essere o è attualmente preda di un incendio, perché da quella montagna o da quella collina vediamo alzarsi del fumo.
Su questa base il "nyaya" edifica una struttura logica in cui mira a formalizzare gli elementi del ragionamento. Il "nyana" definisce la cosa da provare, la proprietà da provare, la cosa di cui si vuole provare qualcosa e la ragione che è il motore della prova e che è chiamata "hetu", e si addentra in problemi assai delicati di implicazione tra ciò che è da provare e ciò che serve da prova.
Per esempio il motore della prova è nel fatto che ogni volta che c'è fumo deve esserci anche fuoco o in altri termini che l'elemento del fumo è in un certo senso compreso sempre nell'elemento del fuoco. Quindi siamo di fronte a un movimento a cinque tempi, che è stato spesso paragonato al sillogismo aristotelico o scolastico. C'è nondimeno un elemento molto importante che non bisogna perdere di vista: il radicamento dell' "anumana" nella percezione. Per gli indiani, almeno per i "naiyayika", nei primi secoli di sviluppo della dottrina, la relazione di inerenza tra lo "hetu" e il "sadhya", cioè tra ciò che serve a provare qualcosa e la qualità da provare, non deve essere considerata da un punto di vista puramente logico, in termini di estensione, come implicazione di un termine minore in un termine maggiore, ma vista piuttosto come il risultato di un'esperienza.
In altre parole non si tratta di partire da premesse che sarebbero a loro volta logicamente dimostrabili, perché generalmente le premesse sono fornite in ultima istanza dall'induzione. E' la ripetizione senza eccezione di casi simili, la compresenza per così dire dell'elemento "fuoco" e dell'elemento "fumo" in determinate circostanze, e la loro coassenza, la loro assenza congiunta in altre, che porta in definitiva ad affermare il legame che li unisce. Ma è sempre sospesa su un procedimento del genere una spada di Damocle, perché non possiamo mai essere del tutto sicuri che la nostra induzione sia stata completa. E soltanto più tardi, nel quadro di un dialogo coi logici buddhisti, che i "naiyayika" hanno progredito verso una vera teoria dell'implicazione logica, propriamente detta, verso una teoria degli universali, ma per molto tempo sono restati allo stadio che sto descrivendo.
Naturalmente il "nyaya" non si riduce a questo. Il "nyaya" è anche una psicologia, una teoria dell'"atman", un'applicazione abbastanza singolare per noi dell' "anumana" di cui ho parlato, alla dimostrazione dell' "atman". Mentre nel "vedanta" questa dimostrazione, come ho detto, precede l'uso dei "pramana", perché li precede in linea di principio e in qualche modo li illumina - bisogna che il soggetto sia dato, perchè i "pramana" siano sviluppati dal soggetto - il "nyaya" non si inoltra su questa via e crede di poter dimostrare l' "atman" allo stesso titolo di qualsiasi altra realtà del mondo. Quindi parte anch'esso dai segni della presenza dell' "atman", utilizza degli "hetu": la memoria, il fatto, la coerenza del comportamento, eccetera, che non si possono spiegare se non con la presenza dell' "atman". Anzi, il "nyaya" classico accorda un'importanza preminente alla dimostrazione di un "Isvara" o "Signore" che regge l'universo e fabbrica delle prove, che assomigliano a quelle che saranno chiamate, nella nostra tarda scolastica, prova cosmologica o "a contingentia mundi" e prova fisico teologica, mediante le cause finali. Ci sarebbero molti accostamenti da fare sotto questo punto di vista.
Un ultimo punto forse è da segnalare per quel che riguarda il "nyaya". Il "nyaya" classico, a cominciare dal XIII o dal XIV secolo, si è in qualche modo rinnovato. Ha abbandonato cioè i suoi aspetti etici, metafisici o religiosi, ed è diventato una tecnica estremamente raffinata e specialistica, ha raggiunto un grado di formalismo assai spinto, chiamato "navyanyaya", letteralmente "nuovo nyaya", che in quanto tale è servito poi da veicolo e si potrebbe dire da gergo comune a tutte le altre scuole brahmaniche, indipendentemente dal suo sviluppo proprio.
 
DOMANDA: E cosa ci può dire riguardo al vaisesika?

Il "vaisesika", letteralmente, è la dottrina che verte sui "visesa", cioè sui caratteri distintivi delle cose concrete, che incontriamo nell'esperienza. Evidentemente è anche in un certo senso il gemello del "nyaya", come lo "yoga" era il gemello del "samkhya". Non c'è differenza profonda tra i due sistemi. Mentre il "nyaya" mette l'accento soprattutto sulla teoria del ragionamento, sulle sue condizioni di validità, il "vaisesika" si concentra prioritariamente sull'analisi o sull'enumerazione delle categorie ontologiche. E' chiaro che in ciò segue le analisi che i grammatici indiani, Panini e altri, hanno proposto già da parecchi secoli, cioè la ripartizione dei significanti in sostantivi, aggettivi, verbi, eccetera.
Il "vaisesika" traspone tutto ciò sul piano filosofico, distinguendo le sostanze, analoghe dei sostantivi, le qualità o gli attributi, ciò che può essere attribuito - gli aggettivi - , le azioni, ciò che è indicato dai verbi, ai quali aggiunge i "tratti universali" o "samanya", tratti comuni a cose diverse, i "tratti particolari", che permettono di cogliere la singola sostanza e infine l'inerenza, il "samavaya", la presenza di un'entità in un'altra. Certo ognuna di queste categorie è suddivisa in parecchi e svariati modi.
Su questo punto però vorrei fare un'osservazione. In un certo modo la dottrina delle categorie del "vaisesika" non può non evocare per noi le dottrine delle categorie aristotelica e scolastica. Ci sono tra quella e queste parallelismi evidenti. La differenza più importante forse potrebbe essere questa: in Aristotele le categorie sono veramente dell'ordine del leghein, cioè del discorso umano. Sono i modi ai quali ci troviamo necessariamente vincolati, quando vogliamo abbordare il reale, pensare il reale, e soprattutto dire il reale. Aristotele non proietta immediatamente le categorie, non realizza per così dire le categorie nell'esteriorità, non attribuisce loro un'esistenza autonoma, a fianco alle cose che esse servono a categorizzare.
Sembra che non sia questo il procedimento del "vaisesika". Il "vaisesika" sembra professare consapevolmente o no, come il "nyaya" del resto, un realismo profondo e credere a una specie di esistenza in sè della sostanza, della qualità, dell'inerenza, eccetera, sullo stesso piano delle entità che quelle categorie servono a classificare. E' un fatto credo che merita di essere notato, anche se non esaurisce l'ontologia del "vaisesika".
Noi possiamo, sia pure in modo singolare, continuare il parallelo con Aristotele: praticamente il "vaisesika" è la sola scuola, nell'India antica, che ha prolungato la sua teoria delle categorie del reale, con una fisica a priori dello stesso tipo di quella che troviamo in Aristotele, cioè una teoria del tempo, del luogo, dello spazio, del movimento, interamente deduttiva e del tutto estranea ad ogni forma di esperienza. Tuttavia ciò che è più notevole nel "vaisesika" è la forma che dà un certo modo di intendere la realtà sensibile esterna, la materia, largamente diffuso in India, ma che trova qui la sua più precisa formulazione e cioè la teoria atomistica, la teoria che considera tutta la materia esterna composta di atomi, nella fraseologia del "vaisesika" di "parama anu". "Anu" vuol dire "minimo", estremamente sottile, "parama" significa "ultimo": quindi gli "estremi della piccolezza".
Si potrebbe fare anche un parallelo con l'atomismo greco. E' certo che "parama anu" è qualcosa di indivisibile, che non può essere ulteriormente scomposto e tuttavia deve avere una certa estensione nello spazio, in mancanza della quale la combinazione di entità prive di volume, prive di dimensioni, non produrrebbe in alcun modo delle entità macroscopiche. C'è tuttavia una grande differenza: mentre Democrito per esempio ammette atomi di una sola specie e pensa alla formazione dei vari generi di materia e di corpi, come risultato delle differenti combinazioni tra gli atomi, il "vaisesika" in sostanza non si spinge così lontano e ammette che esistono atomi di acqua, di terra, di aria e di fuoco. All'interno di ciascuno di questi quattro grandi gruppi, di questi quattro grandi ordini di materia, l'organizzazione della materia è spiegata un po' allo stesso modo, per formazione di composti binari. Quei composti poi si associano a due a due, formando delle terne, eccetera, fino a raggiungere un primo livello di visibilità della materia, il "trasarenu", letteralmente il pulviscolo che si intravede in un raggio di sole. A questo punto si è passati dal livello atomico a quello macroscopico, alla sfera del visibile. C'è dunque tutta una fisica del "vaisesika" abbastanza notevole, della quale ho potuto dare qui solo qualche cenno.
Per finire credo che si possa mettere in luce l'importante contributo del "vaisesika" alla teoria delle funzioni mentali e soprattutto alla teoria dell'attenzione e della percezione sensibile. Ho detto prima che era una teoria delle sostanze e che era anche una teoria atomistica. Ora, ne esiste una applicazione alquanto singolare al rapporto tra l'"atman" - che il "vaisesika" riconosce al pari del "nyaya", - e tutte le strutture mentali che gli servono a entrare in rapporto con il mondo esterno, in particolare il "manas", quella specie di senso comune, di coordinatore dell'attività dei sensi, che sia il "samkhya" che lo "yoga", sia il "nyaya" che il "vaisesika" ammettono. E la particolarità del "vaisesika" è di affermare che la struttura del "manas" è atomica. Perché una determinata percezione abbia luogo, o anche un'immagine, l'immagine di un particolare oggetto si formi, si deve stabilire una congiunzione, grazie a una serie di contatti tra l'oggetto esterno, l'organo di senso che serve a veicolare il messaggio verso il "manas", il "manas" stesso e l' "atman".
In questa prospettiva in cui si suppone che il "manas" è atomico, quindi estremamente piccolo ed estremamente mobile, il "vaisesika" afferma che non possiamo porre attenzione a più di un oggetto per volta, perché la congiunzione tra l'oggetto e l' "atman", tramite il "manas", non può essere che una congiunzione semplice, come se il "manas" fosse un cavo telefonico a una sola pista, che può portare un solo messaggio alla volta. Ne deriva tutta un'analisi della percezione, dell'attenzione, condotta in questa prospettiva.
Ogni volta che abbiamo l'impressione di essere attenti a una serie di oggetti presi per sé, per esempio quando guardo davanti a me e vedo persone e cose o concentro l'attenzione su quello che dico, per il "vaisesika" si tratta più propriamente di un andirivieni rapidissimo del mio "manas", che un momento si fissa su un dato visivo, il momento dopo su un dato auditivo e dopo ancora su una traccia recata dalla memoria. Il paradigma, l'esempio che si porta per far capire questa situazione, è quello delle cento foglie di loto, strette insieme e trapassate da un sol colpo di spillo. E' evidente che lo spillo traversa successivamenmte ognuna delle cento foglie, ma il colpo è così istantaneo, che per il senso esterno è un solo e stesso atto.
Questo è solo un esempio della sottigliezza cui perviene il "vaisesika", quando prolunga la sua fisica, la sua psico-fisiologia, nell'analisi delle funzioni mentali. In altri campi la sua originalità è assai relativa. Come il "nyaya" anch'esso dimostra l' "atman" mediante l' "anumana" o "inferenza", e ugualmente mediante l' "inferenza" dimostra l'esistenza di un "Signore", creatore e reggitore dell'Universo; ma in ciò che concerne la sua teoria della liberazione, come il "nyaya" è assai povero, è assai limitato. A differenza che nel "vedanta", dove l' "atman" possiede fondamentalmente delle qualità positive, come la luminosità, l'onnipotenza, la beatitudine, eccetera, nel "vaisesika" e nel "nyaya" l' "atman" per sé ha bisogno di entrare in contatto con i sensi, di entrare in contatto col mondo esterno tramite i sensi, per conoscere o provare qualsiasi cosa, sicché il modo di intendere la liberazione che ne consegue è del tutto negativo. La liberazione è intesa come fine della trasmigrazione, come fine dell'unione con un corpo e conseguente ripiegamento su di sé di un "atman" che non è piu' veramente cosciente, che lo è solo potenzialmente, ma lo diviene nella forma di questa o quella esperienza particolare. Dunque per definizione non ha più nulla da vedere, nulla da immaginare, nulla da pensare, nulla da sentire, ed è inerte come una pietra. I testi dicono letteralmente: "come una pietra".
Questa concezione prova che la preoccupazione per la liberazione non è essenziale a questo modo di intendere, che è volto piuttosto al mondo esterno e a dare una spiegazione plausibile dei nostri conflitti col mondo esterno nell'ordine della conoscenza e dell'azione.
 
DOMANDA: Siamo arrivati all'ultima domanda: che significato hanno oggi i "darsana" per il pensiero occidentale contemporaneo?
Si potrebbe pensare che i "darsana" siano superati, che appartengano al passato, ma credo che le cose non stiano veramente così. Si possono individuare diversi ordini di significato, procedendo dal piano più esterno verso il più interno. Se consideriamo lo stato attuale della filosofia, delle problematiche filosofiche, risulta subito evidente per esempio che il fenomeno del linguaggio, l'analisi del linguaggio è al centro delle sue preoccupazioni.
Non soltanto lo strutturalismo, ma la filosofia analitica occidentale e in qualche modo anche la fenomenologia tornano all'esigenza di determinare il senso esatto delle parole, per cogliere la genesi del senso attraverso la concatenazione delle parole, e di trovare il referente genuino di una determinata enunciazione. È evidente che queste preoccupazioni che sembrano assai recenti, che sono emerse negli ultimi venti o trenta anni, forse negli ultimi quaranta, nel pensiero occidentale possono trovare una specie di prefigurazione, di maturazione precoce nelle speculazioni alle quali si sono dedicati i "darsana", in particolare la "mimamsa", ma anche, a suo modo, il "nyaya" e perfino il "vedanta", nella continuità dell'esegesi vedica. E' lì che ci si è interrogati per la prima volta sul rapporto tra significante e significato, che ci si è chiesti se termini isolati possano avere per sé un significato o se lo acquisiscano soltanto quando si trovano collegati nel contesto di una frase.
E' di un interesse forse archeologico, ma certo non trascurabile, l'anticipazione, presente in altre culture, di preoccupazioni che nella nostra sono emerse a una data relativamente recente. E' evidente inoltre che ciò che caratterizza la ricerca moderna nella maggior parte delle correnti filosofiche contemporanee è - per via di negazione - la rinuncia a far apparire la filosofia come produttrice di - o come una promessa o un invito ad accedere a - un regime mentale nuovo. In altri termini la filosofia come via alla saggezza, nonostante il suo nome, è qualcosa cui la maggior parte delle correnti attuali ha rinunciato.
La filosofia tende sempre più a considerarsi come una disciplina specializzata e si trova poi in imbarazzo a dire in che cosa consiste esattamente questa specializzazione, mentre per un altro verso è ormai solo in casi eccezionali che si pensa come disciplina di vita, come ricerca, per via di riflessione, di una forma di saggezza in accordo col mondo.
Io credo che lo studio dei "darsana", e in generale delle dottrine indiane, può richiamarci all'evidenza che le cose non stanno necessariamente così. In altri termini noi cerchiamo di colmare la lacuna che avvertiamo oggi - ovvero questa abdicazione della filosofia, che mostra di non tendere più alla saggezza - con il ricorso a istanze diverse, per esempio alla psicanalisi e ai suoi derivati, o con il ricorso a maestri spirituali che ci vengono da altre civiltà.
Lo studio della tradizione indiana classica sembra indicarci che quel divorzio tra filosofia e saggezza non è obbligatorio e che nel campo dei "darsana" c'è una continuità armonica tra le preoccupazioni d'ordine epistemologico, gnoseologico, tra la teoria del sapere, la teoria della scienza e le vere finalità di quelle ricerche: non un comprendere, fine a se stesso, uno studio delle funzioni mentali per se stesse, ma un comprendere la loro ragion d'essere ultima, le condizioni di possibilità che permettono allo spirito di accedere a uno stato diverso, in una parola a ciò che tradizionalmente si chiama salvezza.
Credo che l'ambizione propria della filosofia, ancora forte al tempo dei Greci, abbandonata a poco a poco nell'età moderna, e quasi dimenticata oggi, può rinascere dallo studio dei "darsana", non nella forma di una imitazione servile, ma nel contatto con la tradizione viva che ce li trasmette.



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