Traduzione
originale dall'inglese di Mahendra (Riccardo Grosso)
Questo testo è
distribuito con licenza creative
commons
Prefazione
Quando Sri
Ramakrishna insegnava alla gente, spesso soleva raccontare
delle parabole per aiutarli a comprendere. Egli amava
raccontare storielle e allora la sua stanza era piena di
gioia e risate, perché la gente che lo ascoltava
naturalmente amava molto le sue favole.
In questo libro ti offriamo alcune delle storie
raccontava in quelle occasioni.. Ti piaceranno. I racconti
sono delle parabole perché sono egualmente amati dai nonni
che dai nipotini. Gli adulti le gusteranno come
buone storie, ed inoltre apprezzano l'intimo insegnamento.
I fanciulli li ameranno come belle fiabe, insegnamento o
non insegnamento. Ma i bambini crescono, e le storie
crescono con loro. E un giorno, come da una scatola a
sorpresa, improvvisamente appare l'insegnamento nascosto.
Che sorpresa deliziosa! Così queste storie non perdono mai
il loro fascino.
Quando Irene Ray e Mallika Clare Gupta raccontavano a loro
volta queste storie, semplicemente dimenticavano gli
adulti, ma non dimenticavano per un attimo i le occhiate
furtive dei bambini eccitati dietro le loro spalle. Ecco
perché il sapore dei racconti è così buono.
Ogni libro di racconti deve avere delle immagini. In
questo libro l'artista Biswaranjan Chakravarty ha dipinto
tutte le tavole, l'attraente copertina e le decorazioni
interne. Tutte insieme danno al libro vita e bellezza.
*** Puoi vedere, per esempio, come il fratello
maggiore di Jatila, Mandhusudan sembri proprio uscire
dalla pagina per incontrarti. Ti tocca il cuore così
profondamente che non puoi dimenticarlo.
L'editore ringrazia le scrittrici e l'artista. Ma questa
non è per lui la fine della storia. Egli attende
avidamente lo sguardo brillante di giovani visi
illuminarsi di gioia quando il libro capita nelle loro
mani.Ma cosa a proposito delle parabole dei nonni? Sì,
certamente anche i nonni e tutti gli adulti apprezzeranno
questo delizioso libretto.
L'editore
Advaita
Ashrama
Mayavati, Himalayas
24 febbraio 1974
*** nella traduzione in italiano che appare su
internet, per motivi di "pesantezza" (in termine di
bites) delle immagini, non appaiono.

Sarvamangala
In un
villaggio viveva una volta un povero bramino di nome
Devicharan.
Devicharan era un uomo veramente buono, e amava la Madre
dell'Universo con tutto il suo cuore. Egli l'adorava nella
forma di Durga.
Molto spesso la gente gli chiedeva di leggergli della
Madre da un libro chiamato Chandi. In cambio gli offrivano
come doni del cibo o delle stoffe. In questo modo,
Devicharan era in grado di procurarsi il necessario per
sopravvivere. Egli viveva felicemente con sua moglie e sua
figlia e sebbene fossero così poveri, nulla li rendeva
tristi.
La figlia di Devicharan era molto bella e inoltre era
molto buona. Il suo nome era Sarvamangala. I suoi
genitori le insegnavano tutto quello che sapevano ed essa
imparava molto rapidamente. Lavorava molto, e tutto quello
che faceva, lo faceva bene.
Venne il tempo in cui Sarvamangala raggiunse l'età per
sposarsi. "Dovresti trovare un marito per tua figlia",
disse allora la madre di Sarvamangala a Devicharan. "Ma
chi vorrà sposare una ragazza così povera? Non abbiamo
nulla da darle in dote".
"Non essere ansiosa, mia cara", replicò Devicharan.
"Nostra figlia è bella come Laksmi e piena di qualità come
Sarasvati. Dove si può trovare una fanciulla così amabile
e brillante come Sarvamangala?"
"Hai ragione", assentiva sua moglie. "Essa è buona e
bella, e abile in ogni cosa che fa. Cucina in modo
eccellente. Sopratutto ama rendere la gente felice con il
suo servizio."
"Perciò non ci dobbiamo preoccupare per il suo
matrimonio", disse il bramino. "Durga penserà a tutto".
Poche settimane dopo un brav'uomo che era anche un
possidente fece una visita al villaggio, e vide
Sarvamangala.
Quando si rese conto che era tanto buona quanto bella, la
volle in moglie per suo figlio.
Devicharan acconsentì e Sarvamangala fu maritata.
Ella partì con suo suocero e andò nel villaggio vicino.
Devicharan e sua moglie si sentivano tristi e soli senza
la loro figliola, ma erano contenti che non fosse più
povera e avesse trovato un buon marito.
Presto venne il mese della festa di Durga.
"Moglie, disse Devicharan, "La madre Durga ha benedetto
nostra figlia con un marito buono e sano. Quest'anno
dobbiamo dedicarle una puja (funzione
religiosa) in casa nostra".
"Ma noi siamo così poveri", replicò sua moglie. "A stento
abbiamo di che sfamarci noi stessi, come possiamo pensare
di celebrare una puja qui da noi?"
"Cosa?", sbottò Devicharan. "Durga è la Madre dei ricchi e
non dei poveri? Non accetterà un'umile offerta? Le
offriremo tutto quello che potremo."
Il giorno della festività si avvicinava.
"Dobbiamo portare in casa un'immagine della Madre", disse
il bramino a sua moglie.
"Desidererei anche che Sarvamangala potesse tornare a
casa", rispose lei.
Devicharan prese una moneta da cinquanta paisa e andò da
un pittore.
Ho intenzione di fare una puja per Durga a casa mia",
disse Devicharan. "Per favore, dipingimi una piccola
immagine di Durga. Ti posso pagare cinquanta paisa."
"Hai perso la ragione, Babu Devicharan?", replicò il
pittore. "Eseguire una puja a Durga costa un bel mucchio
di soldi, e anche la più piccola immagine costa più di
cinquanta paisa."
Non ho altri soldi", spiegò Devicharan, "ma adoro la Madre
e le sono riconoscente. Le dedicherò una puja, non dovessi
offrirle altro che fiori".
Il pittore sembrava molto sorpreso e divenne pensieroso.
"Comprendo il tuo sentimento", disse. "Molto bene,
dipingerò un immagine per te e non dovrai darmi nulla".
"Ti pagherò quel che posso", rispose Devicharan, e fece
accettare all'uomo la moneta.
Mentre Devicharan e sua moglie facevano i preparativi per
la puja, pensavano spesso alla loro figlia. Spesso
sospiravano perché si sentivano così soli senza di lei.
"Non le permetteranno di venire da noi ora", disse il
brav'uomo, "perché sarà molto impegnata. In quella ricca
famiglia prepareranno la puja in grande stile e
Sarvamangala sarà un grande aiuto per loro. Dovremo
arrangiarci senza di lei."
Ma proprio l'ultimo giorno prima della festa, la madre di
Sarvamangala si ammalò.
"Cosa faremo?", sospirava. "Domani inizierà la puja e io
sono troppo malata per alzarmi da letto. Chi cucinerà? Chi
ci aiuterà? Oh, Sarvamangala, abbiamo bisogno di
te".
Devicharan consolava la moglie.
"Non ti preoccupare", le disse. "Andrò immediatamente a
vedere Sarvamangala. Forse suo suocero la lascerà venire,
sapendo che sei malata".
Devicharan andò a casa di Sarvamangala, ma non le
permisero di tornare con lui.
"Mi spiace molto", disse lo suocero al bramino, "ma mia
moglie non ce la può fare senza di lei".
Trite e preoccupato, Devicharan salutò la figlia ed andò
verso casa. Parlava con la Madre Durga mentre camminava.
"Il pittore mi ha dipinto una bella immagine", disse, "e
domani ti onorerò. Ma adesso mia moglie è malata e
mia figlia non può tornare a casa. Cosa devo fare?".
In quel momento Devicharan sentì qualcuno dietro d lui che
lo chiamava. Sembrava la voce di sua figlia. Si
fermò e si voltò. Con sua sorpresa vide Sarvamangala che
si affrettava verso di lui.
"Aspettatemi, padre", gridava Sarvamangala, "vengo a casa
con voi!"
"Come è possibile che tu venga con me?", disse Devicharan.
"Cosa dirà tua suocera?"
"Non vi preoccupate di nulla, Padre", replico ella, "tutto
è a posto. Portatemi a casa con voi."
Allora Devicharan e sua moglie divennero molto felici.
La loro figlia era tornata a casa. Sembrava più bella che
mai e il suo viso era radioso di gioia. Si prese cura di
sua madre e fece tutti i lavori di casa.
La sera stessa Sarvamangala aiutò suo padre ad addobbare
l'immagine di Durga per l'adorazione che sarebbe iniziata
il giorno successivo. L'immagine era posto in una cornice
decorata e quando ebbero finito rimasero incantati dalla
sua bellezza. La madre di Sarvamangala si sentiva
molto meglio ed anch'ella ammirò l'immagine.
"Guarda come Sarvamangala ha agghindato bene l'immagine",
disse. "E guarda com'è bella Sarvamangala stessa. Non
abbiamo sete preziose o gioielli, ma la nostra dea e
nostra figlia non hanno eguali in bellezza e fascino".
I primi due giorni della celebrazione passarono
festosamente. Dedicharan officiò per Durga e il suo cuore
era pieno di pace. Venne il terzo giorno, ed era il giorno
in cui si doveva offrire un banchetto agli ospiti.
"Oggi dobbiamo dare una festa per tutti i nostri vicini",
disse Sarvamangala.
"Stai scherzando, figliola?" replicò Devicharan. "Come
possiamo dare una festa? Abbiamo solo pochi frutti da
offrire"
"Non sto scherzando, Padre", disse Sarvamangala.
"Avete onorato la Madre in casa vostra. La cerimonia non
può essere completa se non darete una festa. Intendo
invitare tutti i vicini."
Sarvamangala andò nelle case dei vicini. Devicharan
preparò l'adorazione.
"Adesso che mia figlia ha sposato il figlio di un uomo
ricco", pensava Devicharan, "crede che sia facile dare una
festa".
Quando Sarvamangala tornò, Devicharan si sedette e officiò
il rito. Sarvamangala lo assisteva. L'immagine sembrava
avere vita e il viso di Devicharan risplendere di
gioia. L'intera stanza sembrava brillare della luce della
dea.
A mezzogiorno gli invitati cominciarono ad arrivare.
Sarvamangala li aveva invitati a dividere i frutti offerti
alla Madre.
"Guarda che scherzo ha combinato la ragazza", diceva
Devicharan, sentendosi molto preoccupato.
"Sembreremo molto stupidi quando si accorgeranno che non
abbiamo nulla da offrire loro", disse sua moglie.
"Adesso dovete entrambi smettere di preoccuparvi", disse
decisamente Sarvamangala. "Lasciate fare a me". Li ho
invitati e gli darò le offerte.
"Devicharan fece gli onori di casa, e poi andò a sedersi
davanti alla Madre.
"Non lasciare che mi copra di vergogna", pregava.
Rimase seduto davanti all'immagine perché era preoccupato
dell'espressione degli ospiti.
Sarvamangala pregò gli ospiti di sedersi, e poi servì i
frutti che erano stati offerti a Durga durante la
cerimonia.
"Mio padre è povero", disse Sarvamangala, "così non può
offrirvi un grande ricevimento. E' una grande fortuna che
siate venuti, e vi prego di condividere queste offerte".
I commensali cominciarono a mangiare i frutti.
"Che frutti deliziosi!", esclamavano. "Non abbiamo mai
assaggiato nulla di così buono. Un piccolo pezzo di frutto
è già appagante. E' meglio di un grande banchetto."
Gli ospiti tornarono a casa con grande allegria. Porsero i
loro auguri e le loro benedizioni a Sarvamangala e a i
suoi genitori.
"Sono andati via tutti?" chiese Devicharan. "Hanno riso di
me? O mi hanno forse maledetto?"
"Niente del genere", disse Sarvamangala. "Sono stati tutti
molto contenti".
"La cosa strana", disse sua madre, "è che sebbene gli
invitati siano stati completamente sazi, rimangono ancora
metà delle offerte".
"E' veramente strano", disse Devicharan. "La madre ci ha
benedetto", aggiunse, e lacrime di gioia gli rigavano
le guance.
Il giorno seguente era l'ultimo della cerimonia.
Devicharan si sentiva triste, perché l'indomani la Madre
avrebbe lasciato la sua casa. Si sedette davanti
all'immagine, offrendo alla dea un piatto speciale di
riso, latte cagliato e frutti.
Poiché Devicharan sedeva là con gli occhi chiusi non si
accorse che Sarvamangala era entrata nella camera.
Quietamente cominciò a mangiare il cibo che era stato
offerto alla dea.
Cosa stai facendo, figlia?", esclamò Devicharan.
Senza dire una parola, Sarvamangala corse fuori dalla
stanza.
Devicharan chiese alla moglie di preparare un'offerta
fresca, e quando fu pronta si sedette nuovamente ad
adorare la Madre.
Ancora Sarvamangala scivolò nella stanza e mangiò il cibo
che era stato offerto, e ancora Devicharan chiese di
preparare una nuova offerta.
Per la terza volta Devicharan entrò nella stanza e
mangiò l'offerta. Allora Devicharan si arrabbiò con lei.
"Cosa c'è che non va oggi?", urlò. "Non guastare ancora la
mia adorazione. Vai via!"
Sarvamangala andò dalla madre.
"Papà mi ha detto di andarmene, madre", le disse, "così me
ne vado."
"Oggi devi tornare a casa di tuo suocero, bambina", disse
sua madre, "perché la festa è finita. Quando tuo padre
avrà finito l'adorazione, ti accompagnerà a casa".
Quando Devicharan ebbe finito la sua puja, andò da sua
moglie. "Dov'è Sarvamangala?", le chiese.
"E' andata via da un po'", replicò. "Avrebbe dovuto
aspettare che tu l'accompagnassi a casa".
La cercarono dovunque, ma non la trovarono.
"La stupida ragazza sarà andata a casa di suo suocero",
disse Devicharan. "Devo andare a vedere se sta bene".
Quando Devicharan raggiunse la casa del suocero, fu
sollevato nel vedere che la figlia fosse lì.
"Ti ho sgridata per aver rovinato l'adorazione", le disse.
"E' per questo che sei venuta via da sola? Sei arrabbiata
con me?"
"Cosa state dicendo, padre?", replicò Sarvamangala, molto
sorpresa.
"Non hai mangiato le offerte che ho preparato per la
puja?", chiese Devicharan. "Non ti ho forse rimproverata?"
"Ma, padre, sono stata qui tutto il tempo", rispose
Sarvamangala. "Mio suocero vi disse che non potevo venire
via con voi".
Devicharan rimase attonito. Allora capì cos'era successo.
Era la stessa Durga che aveva preso la forma della figlia.
"Madre, Madre", singhiozzo, versando lacrime di gioia.
"Voi siete venuta da me, e io non vi ho riconosciuto!

Le sette giare
Molti anni fa c’era un barbiere. Era il
barbiere del re. Egli viveva in una piccola casetta con la
moglie. Non erano ricchi, ma non erano neppure poveri. Ogni
mese il re gli pagava le sue prestazioni e con quel denaro
acquistavano tutto quello di cui avevano bisogno.
Tuttavia, il barbiere non era felice. Egli voleva diventare
ricco. “Risparmia più soldi che puoi”, diceva alla moglie.
“Tu devi avere più monili d’oro. Quando avremo risparmiato
abbastanza, ti comprerò una bella collana. Voglio che tu
sembri la moglie di un uomo ricco”.
Così i due risparmiarono quanto più soldi potevano. Quando
ne ebbero a sufficienza, andarono insieme dall’orefice e
acquistarono una collana d’oro.
La donna era monto compiaciuta.
“Adesso cominci a sembrare la moglie di un uomo ricco”, il
barbiere le disse.
Ma il barbiere non era ancora soddisfatto. Egli desiderava
possedere più oro.
Una sera fece una passeggiata nel bosco vicino a casa.
Si sedette sotto un albero, e come al solito, cominciò a
pensare all’oro.
“Vorrei possedere più oro”, diceva fra sé.
In quell’istante sentì una voce. Sembrava provenire dalla
cima dell’albero.
“Barbiere, barbiere”, chiamò la voce. “Vuoi diventare ricco
? Vuoi dell’oro?”
“Sì, sì”, urlò il barbiere. “E’ così! Voglio diventare
ricco! Voglio dell’oro!”
“Quanto oro vuoi?”, chiese la voce. “Vanno bene sette giare
d’oro?”
“Sì, sì”, urlò il barbiere. “sette giare vanno bene!
Voglio sette giare d’oro!
“Va bene”, replicò la voce. “Vai a casa barbiere, troverai
le sette giare che ti aspettano”.
L'uomo saltò in piedi e corse a casa.
“Sarà vero?”, si chiedeva. “Forse stavo solo sognando. Sette
giare d’oro. Ma pensaci!”
Il barbiere correva verso casa.
“Moglie, moglie”, chiamò, appena giunse alla casetta. La
donna si affrettò verso la porta. Sorrideva felice.
“Moglie, hai visto qualcosa?”, le chiese.
“Vieni a vedere!”, le rispose.
Lo accompagnò nella stanza.
Sì, sul pavimento c’erano sette giare!
“Sai cosa c’è nelle giare, moglie?”, le chiese.
“Oro, mio caro. Oro! Ora ti faccio vedere!”
Il barbiere prese la prima giara e sollevò il coperchio. Era
pieno d’oro.
“Vedi moglie?”, esclamò il barbiere. “Ora siamo ricchi.
Abbiamo sette giare piene d’oro!”
Sentendosi felice ed eccitato il barbiere cominciò a ballare
per la stanza.
Sua moglie , seduta sul pavimento, cominciò a sollevare i
coperchi delle giare, una per una, per vedere l’oro che vi
era contenuto.
“Uno, due, tre, quattro, cinque, sei”, contava mentre apriva
i coperchi. “Sono piene d’oro. Che meraviglia!”
Quando aprì la settima giara, emise un'esclamazione di
sorpresa. L’ultima giara era mezza vuota.
“Questa è mezza vuota!”, esclamò.
“Cosa?”, esclamò il barbiere. “Come mai questa giara è mezza
vuota?”
Il barbiere e la moglie osservavano tristemente le sette
giare.
“Bene, bene, non si può far nulla, credo”, disse il barbiere
alla fine. “Ma perché dovremmo tenerla mezza vuota, moglie?
Riempiamola, così sarà come le altre”.
“Riempirla?”, disse sua moglie. “Con cosa la riempiremo?”
“Come, con dell’oro, naturalmente”, rispose il barbiere.
“Dove troveremo abbastanza oro?”, ella replicò.
“Bene, risparmieremo di più”, disse il marito. “E inoltre ci
sono i tuoi monili d’oro. Potremo cominciare con quelli.
Chiederò all’orefice di fonderli nuovamente. Così potremmo
mettere l’oro nella giara.
“Ma, marito”, ella obbiettò, “dicevi che volevi che
sembrassi la moglie di un uomo ricco”.
“Sei una stupida”, replicò il barbiere. “E’ vero che i
ricchi danno alle loro moglie dei gioielli la indossare, ma
questi non sono dei ricconi.
Quelli veramente ricchi tengono il loro oro in
giare, proprio come queste. Quando avremo sette orci pieni
d’oro saremo ricchissimi”.
Il barbiere portò i gioielli della moglie dall’orefice.
Questi li fuse in lingotti ed il barbiere li ripose nella
settima giara.
Tuttavia la giara non era completamente piena.
“Non spendere così tanti soldi, donna”, le diceva il
barbiere. “Mangiamo troppo. Compra meno cibo. Così
risparmieremo più denaro!”
La coppia cominciò a mangiare sempre di meno. Entrambi
diventarono magri.
Il re si accorse che il suo barbiere era diventato molto
magro e sembrava sempre preoccupato.
“Qual è il tuo problema, barbiere?”, un giorno gli chiese il
re.
“Perché in questi giorni sei sempre così triste? Sei anche
molto dimagrito. Sei malato?”
“No, no, vostra maestà”, replicò il barbiere “Non sono
malato. Sono preoccupato per i soldi, ecco tutto”.
“Vedo”, rispose il re. “Ti servono più soldi?”
“Sì, ecco cosa ho bisogno, più soldi”, disse il barbiere.
“Bene – disse il re – Ti raddoppio lo stipendio. Va bene?”
“Oh sì, grazie Vostra maestà”, esclamo il barbiere con
gioia. “Adesso tutto andrà per il meglio.
Il barbiere cominciò a risparmiare sempre più soldi. Egli
acquistò sempre nuovo oro, ma la giara non si riempiva mai.
“Compra meno cibo – disse il barbiere alla moglie – come
possiamo comprare più oro se spendi così tanto per
mangiare?”
Il re notò che il barbiere continuava ad apparire triste e
preoccupato.
“Barbiere”, esordì il re un giorno, “ti ho raddoppiato lo
stipendio ma tu sembri sempre preoccupato. Diventi sempre
più magro. Qual è il motivo?”
Il barbiere non sapeva cosa dire. Come poteva spiegare al re
che voleva oro, sempre più oro, null’altro che oro?”. Egli
non aveva fatto parola a nessuno delle sette giare.
Improvvisamente il re parlò ancora.
“So cosa ti succede”, urlò il re. “Sono le sette
giare. Hai ricevuto le sette giare, non è vero?”
Il barbiere rimase attonito.
“Come – come lo sapete, Vostra maestà?”, gli chiese.
Il re rise. “Lo so – rispose – perché anche a me sono state
offerte una volta. Ho udito una voce in un albero che me le
offriva”.
“Non le avete accettate, allora?” gli chiese l’uomo.
“Sì, le ho accettate”, rispose il re, “ma mi sono accorto
immediatamente che qualcosa non andava. La voce mi offrì
sette orci pieni d’oro, ma trovai che la settima era piena a
metà”.
“E’ così”, esclamò il barbiere, “la settima giara era mezza
vuota”.
“Così tornai dalla voce nell’albero – continuò il re – la
settima giara è mezza vuota”, dissi.
“Va bene”, replicò la voce, “la settima giara è sempre mezza
vuota”.
“Cosa successe allora?”, domandò il barbiere.
“Allora”, continuò il re, “chiesi alla voce se l’oro poteva
essere speso o conservato nei contenitori”.
“E cosa rispose?”, chiese il barbiere ansiosamente.
“Non mi rispose nulla!”, rispose il re, “così andai a casa,
mi sedetti a riflettere sulle giare”.
“Sì?”, disse il barbiere
“Improvvisamente – continuò il re – capii cosa intendeva la
voce quando diceva ‘la settima giara è sempre mezza vuota’. Significava che
per quanto mi impegnassi per riempirla, non sarebbe mai
potuta essere colmata. Compresi che mi era una trappola
tesa, per farmi desiderare sempre più oro. Fino a quando la
giara non fosse stata riempita, non si sarebbe mai sopito il
mio desiderio per l’oro”.
“Una trappola!”, esclamò il barbiere.
Sì”, continuò il re, “era una trappola. Ma lo compresi. Non
mi feci prendere al laccio. La settima giara era la ‘giara
del desiderio’, e più ottieni l’oro che desideri, e più
aumenta il tuo desiderio”.
“Come usciste dalla trappola?”, chiese il barbiere.
“E’ stato molto semplice”, replicò il re. “Andai ancora una
volta all’albero e dissi alla voce: ‘Riprenditi le tue sette
giare d’oro. Non le voglio’ ”.
“E cosa successe?”, chiese il barbiere.
“’Bene’, disse la voce”, rispose il re. “’Le riprenderò
indietro.’ E quando tornai a casa, le giare erano sparite”.
“Così la settima giara non può essere riempita”, disse il
barbiere, pensieroso. “Ne siete veramente sicuro, Vostra
maestà?”
“Su questo non ci sono dubbi”, replicò il re. “Rendi quelle
giare, barbiere, prima che sia troppo tardi. Sei magro e
malato. Quale bene ti potrà venire da questo desiderio per
sempre più oro? Rendi quelle giare, ti dico, prima di incappare in problemi
ancora più gravi.”
Il barbiere era molto spaventato dalle parole del re. Corse
ancora una volta dall’albero nella foresta e chiese alla
voce di riprendersi le sette giare.
“Tutto bene, lo farò”, rispose la voce.
Quando il barbiere
tornò a casa, le sette giare erano sparite. E con
quelle, naturalmente si era volatilizzato tutto l’oro
che il barbiere aveva risparmiato – e anche tutti i
gioielli di sua moglie!

Jatila
Una volta in un villaggio in
India c'era un bambino che si chiamava Jatila.
La mamma di Jatila era vedova e non c'era nessuno che
l'aiutasse.
Ella ricavava un po' di soldi spigolando i cereali. Entrambi
avevano appena di che mangiare, ed erano molto poveri.
Ogni giorno la mamma di Jatila pregava il Signore Krisna. Le
chiedeva di aiutarla ad occuparsi del ragazzino perché
voleva che diventasse un uomo forte e buono.
Quando Jatila fu grande abbastanza, sua madre lo mandò a
scuola. Ma la scuola era lontana, in un altro villaggio e
per raggiungerla Jatila doveva attraversare la foresta.
Gli alti alberi rendevano molto scuro il sentiero e Jatila
era spaventato.
Alcuni alberi avevano lunghi rami che sembravano braccia in
procinto di ghermirlo. Su altri alberi crescevano delle
liane che somigliavano a grandi serpenti.
"Vorrei che ci fosse qualcuno con me", pensava il fanciullo.
"Non sarebbe così brutto se ci fosse qualcuno con cui
parlare".
Ma Jatila era solo, così si affrettò, e arrivò a scuola più
veloce che poté.
Si trovò bene a scuola. Gli piaceva il maestro e durante la
ricreazione si divertì a giocare con gli altri ragazzi.
Tuttavia quando la scuola finì, e fu tempo di tornare a
casa, improvvisamente Jatila si ricordò che avrebbe dovuto
nuovamente attraversare la foresta.
Il ritorno fu ancora peggio; la foresta era ancora più
tenebrosa e c'erano ombre paurose ovunque. C'erano quelle
braccia, che cercavano continuamente di afferrarlo! E
c'erano quelle cose che sembravano serpenti che si
arrampicavano sui tronchi degli alberi...
Jatila cominciò a correre. Corse per tutta la lunghezza
della foresta e non si fermò fino a quando raggiunse casa
sua.
Appena vide sua madre, cominciò a piangere.
"Cos'è successo?", chiese sua madre. E lo prese tra le sue
braccia per confortarlo.
"Il maestro ti ha rimproverato?"
"Oh, no mamma", rispose il fanciullo. "Mi piaceva stare a
scuola. Ma c'é la foresta, mamma. Il tragitto è così lungo e
io sono solo. Ho paura".
"Ma non c'è nulla di che aver paura nella foresta", disse la
mamma. "Presto te ne renderai conto".
"No, mamma, Ho molta paura. Per favore, manda qualcuno con
me."
"Ma chi posso mandare, bambino mio? Non c'è nessuno che
possa andare con te."
La mamma di Jatila chiuse gli occhi e sembrava stesse
pensando molto intensamente. Improvvisamente li riaprì e il
viso si illuminò con un sorriso.
"Ma certo!", esclamò. "Che stupida ad essermene dimenticata!
C'è tuo fratello maggiore nella foresta. Ti accompagnerà e
si prenderà cura di te".
Jatila era stupefatto.
"Un fratello maggiore? Ho un fratello maggiore, mamma?", le
disse.
"Sì, bambino mio. Il suo nome é Madhusudan."
"Ma dove sta", chiese Jatila. "Perché non vive in casa con
noi?"
"Abita nella foresta", rispose la vedova. "Là accudisce alle
mucche". Ma se domattina lo chiamerai quando andrai a
scuola, sono sicura che lascerà le mucche e ti accompagnerà
attraverso la foresta".
Jatila era felice. Ora, invece della sensazione di paura
della foresta, non vedeva l'ora che venisse il nuovo giorno
così sarebbe potuto andare rapidamente nel bosco e
incontrare suo fratello. Il mattino di buon ora Jatila
salutò sua madre e andò a scuola.
Ella rimase immobile sulla porta della capanna guardandolo
mentre si affrettava ansiosamente verso la foresta.
"Oh, Madhusudan", chiamò. Per favore, accompagnami lungo la
foresta!".
Jatila attese in ascoltò, ma nessuno rispose né arrivò.
"Sarà molto lontano", pensò. "Chiamerò più forte".
Così chiamò ancora, più forte che poté, ma nessuno si fece
vivo.
"Lo so che è nella foresta", si disse "e verrà perché la
mamma me l'ha detto".
Jatila chiamò a lungo suo fratello maggiore, ma ancora non
arrivava nessuno.
Jatila cominciò a piangere.
"Mamma ha detto che saresti venuto", singhiozzò. "Dove sei?"
In quel momento udì il suono di un flauto. Non aveva mai
udito una melodia così dolce.
La musica si avvicinò sempre di più, ed infine Jatila vide
un ragazzo venire verso di lui, seguendo il sentiero.
Era molto affascinante; sulla testa portava una corona,
bella e lucente, con inserita una penna di pavone.Suonava il
flauto, ed era radioso di felicità.
Jatila gioiosamente corse verso il ragazzo.
"Sei Madhusudan, mio fratello maggiore?", gli chiese. "La
mamma mi aveva detto che se ti avessi chiamato, avresti
lasciato le tue mucche e mi avresti accompagnato nella
foresta. Devo andare a scuola, sai?".
"Sì, sono tuo fratello maggiore", rispose il ragazzo.
"Andiamo, attraverseremo insieme la foresta".
Jatila camminò con suo fratello e gli raccontò della sua
vita a casa e di come era contento di essere abbastanza
grande da andare a scuola. Rapidamente dimenticò la
paura del giorno prima.
Quando raggiunse il termine della foresta, Madhusudan si
arrestò.
Disse:"Devo tornare indietro":
"Ma mi riaccompagnerai questa sera", gli chiese Jatila.
"Avrò molta paura se non verrai con me".
"Oh, sì", rispose Madhusudan. "Chiamami e verrò da te".
Tutte le mattine e tutte le sere non appena raggiungeva la
foresta, il ragazzo chiamava suo fratello maggiore. E
sempre egli arrivava e camminavano insieme. Jatila parlava
di sé e sua madre e di tutto ciò che accadeva a scuola, e
Madhusudan ascoltava e ogni tanto suonava il flauto.
Una sera mentre tornavano a casa da scuola, Jatila parlò a
suo fratello di una festa che avrebbero fatto a scuola. Il
maestro che ogni fanciullo avrebbe dovuto portare qualcosa
per la festa.
"E domani", spiegò Jatila, "dovrò dire cosa porterò".
"Bene, cosa pensi di portare?", chiese suo fratello.
"Non lo so", rispose Jatila. "Noi siamo molto poveri, sai.
Forse non potrò portare nulla".
"Chiedilo alla mamma. Lei saprà sicuramente cosa fare".
Quando il fanciullo chiese alla mamma che cosa avrebbe
potuto portare alla festa, lei diventò molto triste.
"Non ho nulla da darti, Jatila, e non ho soldi, così non
posso comprare nulla. Perché non chiedi come fare a tuo
fratello?"
"Lui mi ha detto di chiederlo a te", rispose Jatila. "Mi
disse che avresti saputo cosa fare".
Sua madre sorrise.
"Ha detto così?", gli disse. "Molto bene. Rispondigli che
dipende da lui".
La mattina seguente mentre andava a scuola, Jatila spiegò a
suo fratello era troppo povera per mandare qualsiasi cosa
alla festa.
"Lei disse che dipende da te", aggiunse Jatila.
"Va bene", rispose ridendo Madhusudan. "Dì al tuo maestro
che porterai del riso con yogurt alla festa. E digli anche
che ce ne sarà a sufficienza per tutti".
Jatila sorrise.
"Dovrà essere una pentola molto grossa, perché siamo circa
in venti", disse.
Venne il giorno della festa e Jatila corse felice per
incontrare suo fratello nella foresta. Stava pensando
ansiosamente come portare a scuola la grande pentola.
Come sempre, suo fratello maggiore giunse dal sentiero della
foresta, e portava con sé un recipiente di riso.
"Consegnala al tuo maestro", e gli diede la pentola.
Jatila la prese, ma diventò molto triste, perché non era per
niente grande. In realtà era molto piccola. Pensò che ci
sarebbe stato riso per sei persone al massimo.
Madhusudan guardò la faccia triste del fratello.
"Dalla al tuo maestro. Sarà sufficiente per tutti".
Quando il maestro vide la piccola pentola di Jatila si
arrabbiò molto.
"Mi dicesti che avresti portato riso e yogurt per tutti,
così non me ne sono più preoccupato. Cosa faremo di una
pentola così piccola quando siamo in tanti? Jatila, hai
rovinato la festa!".
Il piccolo contenitore venne messo in un angolo. La festa
era quasi finita quando il maestro se ne ricordò.
"Non dobbiamo sprecare questo cibo", disse il maestro.
"Qualche bambino ne potrà avere. Jatila, porta la pentola":
Jatila la prese e diede il riso a tre o quattro compagni. Si
accorse che accadeva qualcosa di strano. Appena prendeva del
cibo, la pentola tornava a colmarsi. Allora riempì il piatto
di riso a tutti i bambini della classe.
Il maestro guardò Jatila, incredulo.
"Jatila!", esclamò. Hai dato il riso a tutti. Come ci sei
riuscito? Pensavo che avessi portato solo una piccola
pentola di cibo".
"Sì, signore". replicò il fanciullo. "Questo è il
contenitore. Ma guardate, è ancora pieno".
"Impossibile!", sbottò il maestro. "Dove hai preso questa
pentola?. Dimmelo immediatamente!"
"Signore, me l'ha data mio fratello maggiore".
"Tuo fratello maggiore? Non sapevo che avessi un fratello
maggiore", disse il maestro.
"Neanch'io lo sapevo", rispose Jatila, "fino a quando non ho
cominciato a venire a scuola. Mi accompagna nella foresta,
sapete."
"Ma dove vive? Come si chiama?", chiese il maestro,
piuttosto confuso.
Allora Jatila raccontò al maestro tutto di Madhusudan - cosa
diceva, come appariva e come suonasse dolcemente il flauto.
"Jatila", disse il maestro, "desidererei conoscere tuo
fratello. Posso accompagnarti, per incontrarlo?"
"Certamente, signore", rispose il bimbo. "Venite con me alla
foresta questa sera. Devo solo chiamarlo ed egli viene da
me".
Quando f u tempo di tornare a casa, il maestro lo accompagnò
alla foresta.
Come al solito, Jatila chiamò Madhusudan, ma egli non venne.
Chiamò ancora e ancora, ma non veniva nessuno.
"Jatila, penso che tu non abbia detto la verità. Non hai
nessun fratello che vive nella foresta".
Jatila scoppiò in lacrime.
"E' vero, è vero", singhiozzò. "Ho un fratello, ve l'ho
detto. Si chiama Madhusudan e mi ha dato il riso".
"Dov'è allora", replicò il maestro.
"Oh, fratello Madhusudan", chiamò ad alta voce. "Devi venire
da me. Devi venire. Se non lo farai, il maestro non crederà
mai che ho detto la verità".
Improvvisamente Jatila sentì il suono di un flauto.
"Là, sta arrivando! Sentite come suona bene il flauto!"
Il maestro ascoltò il flauto e si guardò intorno cercando il
suonatore. Però Madhusudan non si faceva vedere.
Invece, una voce musicale parlò da qualche punto della
foresta.
"Jatila", disse la voce, "ci vorrà parecchio tempo prima che
il tuo maestro possa vedermi. Tu mi hai visto per merito di
tua madre. Ella e pura e buona e piena di fede. Mi ha
implorato di prendermi cura di te nella foreste e per questo
ti accompagno ogni giorno. Tu mi hai visto perché tua madre
ha fede in me e tu credi in tua madre".
Alla fine, Jatila capì. Il suo fratello maggiore che viveva
nella foresta era realmente Mdhusudan.
Ndt: Madhusudan, al pari di Krishna di cui è simile
nell'aspetto, è tradizionalmente uno dei trentanove avatara
(incarnazioni) di Vishnu.

Il cobra
Una volta in una tana sotto
un grande albero viveva un cobra. L'albero era presso
l'angolo di un campo vicino al villaggio.
Tutti gli abitanti del villaggio erano terrorizzati dal
cobra. Era molto cattivo. Se qualcuno si avvicinava al suo
albero, il cobra sgusciava fuori dalla tana e lo mordeva.
Molta gente era morta in questo modo, perché il cobra era
molto velenoso.
I ragazzi del villaggio dovevano passare vicino al campo
ogni mattina per portare le loro mucche nella giungla.
Seguivano sempre il sentiero e non si avvicinavano mai
all'albero del cobra.
Anche alla sera, i ragazzi si affrettavano ad attraversare
il campo, avendo gran cura di stare lontani dal percorso del
cobra.
Una sera un giovane monaco arrivò al villaggio. I pastori lo
videro entrare nel tempio.
La mattina seguente lo videro ancora. Stavano conducendo le
loro mucche verso la giungla, quando il monaco si avvicinò e
camminò con loro.
"Namaste Jì", salutarono educatamente i ragazzi.
Il monaco li salutò a sua volta e così camminarono
insieme. Quando raggiunsero il campo dove viveva il
cobra, il monaco si fermò e si guardò intorno. Osservò
l'albero nell'angolo. "Quello è un bell'albero", disse.
"Andrò là e mi siederò sotto di esso per un po'. Voglio
meditare".
I ragazzi erano allarmati.
"No, no, Signore", gridarono. "Non vi avvicinate a
quell'albero!".
"Perché no?", chiese il monaco. "Cosa c'è che non va?"
"Voi siete nuovo del villaggio", replicarono i ragazzi,
"così non lo sapete. Un terribile serpente vive sotto
quell'albero. E' un cobra selvaggio. E' sempre arrabbiato.
Morde la gente, che poi muore".
"Non mi morderà", disse il monaco.
I ragazzi erano sorpresi.
"Perché no?", chiesero. "Come potete sapere che non vi
morderà? E' un serpente molto cattivo".
"Non mi morderà", disse nuovamente il monaco. "Io conosco
alcuni mantra, sapete. Io gli ripeterò un mantra, e quando
lo udirà diventerà quieto e gentile. Potete venire con me se
lo desiderate, vi farò vedere".
Ma i ragazzi avevano paura. Non si azzardavano ad
avvicinarsi all'albero. Dissero: "Dobbiamo badare alle
mucche e portarle nella giungla".
Così i ragazzi andarono per la loro strada, e il monaco si
diresse verso l'albero all'angolo del campo.
Quando il monaco si avvicinò all'albero, il cobra scattò
fuori della sua tana. Il monaco rimase immobile. Il cobra si
sollevò. Sibilò, arrabbiato. Era pronto a morderlo.
In quel momento egli recitò un mantra.
Immediatamente il cobra abbassò il capo. Giacque calmo al
suolo, innocuo come un lombrico.
"Sono venuto per meditare sotto questo albero", disse il
monaco al cobra. "Non disturbarmi".
"Molto bene, Signore", replicò il cobra.
Il monaco sedette sotto l'albero. Egli recitò svariati
mantra, con una voce ricca, musicale e profonda. Poi
diventò silenzioso, entrando in profonda meditazione.
Passarono alcune ore mentre il monaco meditava. Poi aprì gli
occhi, e la prima cosa che vide fu il cobra, ancora
accoccolato presso di lui.
"Così sei ancora qui", disse il monaco con voce gentile.
"Sì Signore", rispose umilmente il cobra.
"I ragazzi mi hanno detto che hai colpito molte persone",
disse il monaco. "Il tuo morso è velenoso. Quando tu mordi
una persona, quella muore. Non lo sapevi?"
"Si, Signore, lo sapevo", disse il cobra.
"E allora?", replicò il monaco. "Non ti sembra che sia una
cosa molto sbagliata?"
"Si, Signore", disse il cobra. "Spesso ho desiderato di
controllare il mio cattivo carattere, ma non so come fare".
"Se tu vuoi veramente una cosa", replicò il monaco,
"certamente la otterrai. Forse non ti sei impegnato
abbastanza".
"Vi prego, insegnatemi a diventare buono, Signore", balbettò
il cobra.
"Ti insegnerò un mantra", disse il monaco. "Se la ripeterai
incessantemente, giorno dopo giorno, imparerai ad amare ed
essere buono".
Così il monaco insegnò al cobra un mantra e gli dette il
nome 'Nagaraj'.
"Ora ti devo lasciare", disse il monaco. "Ricordati,
Nagaraj, ripeti il mantra e non ferire nessuno".
"Sì, Signore", promise il cobra. "Lo ricorderò".
Mentre il monaco si allontanava dall'albero, si voltò ancora
una volta e guardò il serpente.
"Lascerò il villaggio domani", disse, "ma tornerò a vederti
fra un anno".
Quella sera i ragazzi si affrettarono a raggiungere il
villaggio, perché erano ansiosi di sapere se il cobra avesse
morso il monaco. Quando lo incontrarono, gli chiesero cosa
fosse successo quella mattina.
"Non mi ha colpito", disse. "Non morderè più nessuno, ora.
E' diventato un buon cobra".
All'inizio i ragazzi non riuscivano a credere che il cobra
non avrebbe più morso. Ma il tempo passava, e
molti si accorsero che il cobra era diventato piuttosto
mite. Gradualmente la gente del villaggio smise di
aver paura di lui. Non aveva più morso nessuno.
I pastori spesso vedevano il cobra quando attraversavano il
campo nel loro percorso verso la giungla con le loro mucche.
Ogni volta che lo vedevano, gli tiravano delle pietre. Il
cobra non li notava nemmeno. Solo le sue labbra si muovevano
come se stesse mormorando qualcosa. Qualche volta una pietra
colpiva il suo dorso facendolo sanguinare, ma il cobra non
si arrabbiava.
Una sera i ragazzi stavano tirando le pietre al cobra, come
il solito. Improvvisamente un ragazzo diventò molto
temerario. Prese il cobra per la coda e lo fece mulinare più
e più volte. Gli altri ragazzi ridevano e lo incitavano.
Poi improvvisamente il ragazzo lasciò la coda del cobra, che
planò e cadde al suolo. Batté la testa contro una pietra.
Giacque così, continuando a sanguinare.
"Hurrà", urlarono i ragazzi, tutti insieme, mentre si
precipitavano a casa. "Quel dannato cobra è morto, alla
fine!"
Ma Nagaraj non era morto. A tarda notte, quando si sentì un
po' meglio, strisciò lentamente e dolorosamente nella sua
tana sotto l'albero.
Doveva nascondersi nella sua tana. Era troppo debole per
muoversi. Non aveva nulla da mangiare e diventava sempre più
debole.
Tuttavia continuava a ripetere il mantra che il monaco gli
aveva dato. Gradualmente la sua ferita guarì e fu di nuovo
in grado di uscire.
Ma ora usciva solo di notte quando non c'era nessuno in
giro. Rapidamente mangiava qualche foglia o un piccolo
frutto che trovava per terra e poi si affrettava a tornare
nella sua tana.
L'anno seguente il monaco tornò al villaggio.
Gli dissero: "Il cobra cattivo è morto!"
"Oh, è morto?", rispose il monaco.
Ma egli sapeva che Nagaraj non era morto. Gli aveva dato un
mantra, e il mantra aveva prodotto i suoi frutti.
Il monaco andò presso l'albero e si fermò davanti alla tana
del cobra.
"Nagaraj, oh Nagaraj", chiamò il monaco, "sono tornato".
Nagaraj uscì lentamente dalla sua tana e si inchinò al suo
maestro.
"Come stai?", chiese il monaco.
"Sto abbastanza bene, signore", rispose Nagaraj.
"Ma perché sei così magro?", chiese il monaco.
"Signore", disse il monaco, "ora mangio solo foglie e
frutti. Voi mi diceste di non mordere nessuno, così non
prendo più uccelli e topi, come ero solito fare. Ecco perché
sono così magro".
"Ma sembri anche malato", proseguì il monaco. "Ti deve
essere successo qualcosa. Qualcuno ti ha ferito?".
Ripetendo la parola sacra, la mente del cobra si era
purificata. Si era dimenticato che cosa gli avevano fatto i
pastori. Cercava di ricordarsi cosa gli fosse successo.
"Ah sì, Signore", disse. "Ora ricordo. Sono stati i pastori.
Spesso mi tiravano delle pietre. Un giorno mi presero per la
coda e mi fecero girare. Quando caddi, sbattei la testa
contro una pietra. Ci mancò poco che morissi".
"Come hai potuto lasciare che i pastori ti fecero questo?",
esclamò il monaco.
"Ah, Signore, i ragazzi sono ragazzi", replicò Nagaraj." Non
ci si può arrabbiare con loro. Come potevano sapere che ero
cambiato? Non potevano certo sapere che volevo solo essere
buono e non avevo intenzione di colpirli".
"Oh, ma che stupido sei!", esclamò il monaco. "Perché non
sibili alla gente? Ti devi proteggere da loro. Sibilare non
fa male. Non colpire, ma soffia. Spaventa i cattivi in modo
che non ti facciano del male".
"Oh", replicò Nagaraj, "adesso mi rendo conto dell'errore
che ho fatto. Sì, sibilerò ai ragazzi che certamente
fuggiranno. Non ci avevo pensato".
Da quel giorno in poi Nagaraj visse felice nella sua tana
sotto l'albero. Non morse nessuno, e continuò a ripetere il
mantra che il suo maestro gli aveva insegnato.
Ma se qualcuno cercava di colpirlo, Nagaraj sibilando lo
spaventava e lo faceva scappare.
*(formula di saluto per una persona di riguardo)

Chi
ha ucciso la mucca?
C'era una volta un bramino di
nome Hiralal che aveva un bel giardino. Ne era molto fiero,
perché l'aveva realizzato da solo.
Ogni giorno vi lavorava parecchie ore. Strappava tutte le
erbacce, bagnava gli alberi e le piante, e piantava nuovi
filari. I fiori vi sbocciavano tutto l'anno.
Quando capitava un visitatore, Hiralal glielo mostrava con
gran piacere.
"Vede le mie rose?", diceva. "Ne avete mai viste di così
belle? Devo lavorare molto duramente per ottenere dei
boccioli così perfetti".
Hiralal metteva grande cura affinché non capitasse alcun
guio. L'ingresso al suo giardino avveniva attraverso una
piccola porta che era sempre accuratamente chiusa.
Ogni tanto, tuttavia, l'ingresso rimaneva accidentalmente
aperto. Una volta una gatta entrò e andò a dormire su un
cespuglio di fiori. I fiori si sciuparono, e Hiralal era
estremamente arrabbiato. Afferrò un bastone e si avventò
sulla gatta, ma essa saltò su un albero e sparì oltre il
muro.
Un altro giorno, mentre Hiralal stava lavorando all'altro
lato del giardino, tre bambini aprirono l'ingresso ed
entrarono. Stavano raccogliendo dei fiori, quando Hiralal li
scorse. Con un ruggito prese il suo bastone e si buttò su di
loro. I ragazzini scapparono e Hiralal non riuscì a
prenderli.
"Vi darò una bella lezione quando vi prenderò", urlava, ma
ormai i fanciulli erano fuggiti lontano.
Pochi giorni dopo un babbuino riuscì a trovare un varco per
entrare nel giardino e fece molti danni. Mentre Hiralal
stava scacciando la scimmia, entrò un cane e cominciò a
scavare un buco. Il cane scappò non appena vide arrivare il
bramino ed egli non poté far altro che inveire.
Un mattino, verso mezzogiorno, successe una cosa terribile.
L'ingresso venne spalancato da una folata di vento e una
mucca penetrò nel giardino.
Hiralal stava dormendo sotto un albero e prima che si
alzasse la mucca aveva mangiato tutte le foglie di svariati
arbusti. Quando Hiralal si rese conto di ciò che era
successo, diventò furioso.
Quella volta, tuttavia, non si mise a urlare. Prese il suo
bastone e si precipitò verso la mucca e cominciò a
picchiarla più forte che poté.
La mucca venne colta completamente di sorpresa perché
nessuno l'aveva battuta fino ad allora. Essa rimase così
confusa che non riuscì a fuggire. Semplicemente si accucciò.
Hiralal continuò a picchiarla, e il suo bastone scese giù,
giù, giù, ed egli diventò sempre più infuriato.
La gatta é scappata, i ragazzini sono scappati, e così fece
la scimmia, e il cane, urlò Hiralal. "ma tu prendi questo,
questo e questo".
Con furia terribile batté la mucca più forte che poté.
Improvvisamente Hiralal si rese conto che la mucca era
morta. La fissò con orrore.
"Che cosa ho fatto?", si disse. "Ho ucciso una mucca! Io, un
bramino! Che cosa terribile ho fatto! Cosa dirà la gente?"
Hiralial si sedette e cominciò a pensare come salvarsi. Come
nascondere il corpo della mucca in modo che nessuno sappia?
La prima cosa da fare, decise, era quella di nascondere il
corpo dietro i cespugli al limite del giardino. Poi, di
notte, quando non ci fosse nessuno in giro, avrebbe potuto
scavare una grande buca per seppellirla.
Hiralial trascinò il corpo della mucca fino al limite del
giardino e l'abbandonò tra i cespugli. Si sentiva triste e
molto preoccupato, così si sedette per riposare.
"Per un bramino é un peccato molto grave uccidere una
mucca", pensò tra sé.
Non volevo ucciderla, ma ero così arrabbiato che non mi
accorgevo di cosa facessero le mie mani. Nelle scritture è
detto che che Indra è il dio che giuda le mani. E' per il
suo potere che esse agiscono.
Hiralal cominciò ad essere meno spaventato, mentre pensava a
Indra. "E' così", si disse, "In verità è stato Indra ad
uccidere la mucca. La mia mano reggeva solo il bastone. La
forza per picchiare la mucca venne da Indra, non da me. Non
c'é nulla di cui mi devo preoccupare, dopo tutto".
A quel punto
Hiralal si sentì così sollevato che balzò in piedi e
cominciò a lavorare nel giardino.
Lontano, in cielo, Indra vide quel che aveva fatto Hiralal e
udì tutto quello che si era detto.
"Questo non va", pensò Indra. "Devo dargli una lezione".
Un poco più tardi quella sera, mentre Hiralal stava
innaffiando il giardino, rimase compiaciuto nel vedere un
vecchietto gentile dirigersi verso di lui, sorridendo
educatamente.
"Oh, che meraviglioso giardino", disse il vecchietto, "che
bei fiori, che alberi piacevoli! Chi ha fatto questo
giardino?"
"L'ho fatto tutto da solo", replicò Hiralal, fiero. "Non
posso dirle quanto ho dovuto lavorare duramente in tutti
questi anni".
Veramente?", rispose l'uomo. "L'avete fatto tutto da solo?
Nessuno vi ha aiutato?"
"No", disse il bramino, "non mi ha aiutato nessuno. Ho fatto
tutto questo lavoro con le mie sole due mani. Venite,
signore, vi mostrerò il giardino".
Hiralal e il vecchio passeggiarono insieme per il giardino.
"Mi auguro che non veda la mucca morta", pensò Hiralal tra
sé, "devo cercarlo di tenerlo lontano dai cespugli".
L'uomo ammirò uno dopo l'altro e tutte le piante di
fiori e gli alberi. Poi arrivarono alle rose. Fu
d'accordo nel dire che le rose erano perfette.
"Bene, questo è tutto quello che avevo da mostrarvi", disse
Hiralal.
"Ma ditemi qualcosa di quei cespugli laggiù", continuò il
vegliardo e si diresse rapidamente verso di essi e Hiralal
dovette seguirlo.
Improvvisamente, l'uomo vide la mucca uccisa.
"Povero me! Una mucca morta", disse il vecchietto. "Che
tristezza! Ma sembra anche che sia stata picchiata. Che cosa
terribile.Una mucca battuta a morte! Chi ha fatto questo?"
Il vecchio guardò intensamente Hiralal, ed egli non seppe
che dire. Giunse le mani e rimase in silenzio.
"Chi la uccise?", ripeté il vecchio con voce ferma.
Allora Hiralal si ricordò dell'idea che ebbe nel pomeriggio.
"E' stato Indra", disse. "Indra uccise la mucca".
"Cosa volete dire?" chiese il vecchio. "Come ha potuto Indra
uccidere la mucca?"
"Non sapete", replicò Hiralal, "che Indra è il dio che guida
le mani? Le mie mani hanno brandito il bastone, questo è
vero. La mucca stava mangiando tutte le mie foglie, vedete,
ho dovuto picchiarla. Ma le mani agiscono in virtù della
potenza di Indra, così il peccato dell'uccisione della mucca
è di Indra, non mio".
"Io sono Indra!", urlò il vecchietto, e mentre lo
pronunciava la sua forma si mutò e apparve Indra, con un
aspetto estremamente arrabbiato.
E' così!", disse Indra, "Indra uccise la mucca, non è vero?
Il peccato è di Indra, eh? Quando ti chiesi chi aveva
realizzato il giardino, mi dicesti che eri stato tu. Mi hai
detto chiaramente che hai fatto tutto con le tue mani. Non è
così?"
Hiralal giunse le mani pieno di vergogna.
"Sì, Signore", rispose.
"Così il bene che fanno le tue mani è tuo, ma il male che
commettono è mio. Questa è la tua idea, non è vero?", disse
Indra.
Hiralal non trovò nulla da rispondere.
"Non sbagliarti", tuonò Indra. "Tu hai ucciso la mucca,
Hiralal. Il peccato è tuo. IL PECCATO E' TUO!"
Con quelle parole Indra improvvisamente svanì. Hiralal si
accasciò al suolo, piangendo disperatamente.

Il
pandit* e la lattaia
Kamala aveva tredici
anni. Viveva con suo padre in un villaggio vicino alla riva
del Gange. Essi possedevano delle mucche, che davano molto
latte.
Tutte le mattine Kamala si alzava molto presto. Appena suo
padre aveva munto le mucche, ella portava il latte nelle
case dei vicini per venderlo. Poi tornava a casa, puliva la
capanna e cucinava un semplice pasto.
Kamala lavorava duramente ed era sempre felice. Le piaceva
cantare quando lavorava e le canzoni che amava di più erano
le lodi di Hari.
“Quando Kamala canta”, soleva dire suo padre, “sembra che
Hari dimori nella nostra capanna”.
Vicino alla casa di Kamala, viveva un barcaiolo sulla sponda
del Gange. Quando chiunque del villaggio voleva passare
all’altra sponda del fiume, chiedeva al barcaiolo di
traghettarlo. Ogni
giorno il barcaiolo faceva la spola tra le due rive del
fiume. Ogni tanto parlava a Kamala e suo padre della gente
che abitava sull’altra sponda del fiume.
”C’è un pandit (un erudito) che vive sull’altra riva del
fiume”, disse un giorno il barcaiolo, “che vorrebbe del
latte fresco ogni giorno. Gli dissi che te ne avrei
parlato”.
Il padre di Kamala rispose: “gli posso fornire il latte, ma
come farà Kamala a portarglielo? Dovrà attraversare il
fiume”.
“Non ci saranno difficoltà”, rispose il barcaiolo, “la
traghetterò ogni mattina sull’altra sponda”.
Il mattino seguente di buon ora Kamala si avviò con il latte
per il pandit, e il traghettatore attraversò il fiume.
Il pandit era molto compiaciuto.
“Mi porterai il latte a quest’ora ogni giorno?” le chiese.
“Certamente signore”, rispose Kamala.
“Vedi di arrivare in tempo”, disse il pandit. “Non fare
tardi, altrimenti tutta la mia mattinata sarà rovinata”.
“Oh, no signore, non farò tardi”, assicurò la ragazza.
“Ti pagherò ogni venerdì pomeriggio”, disse il sapiente.
“Molto bene, signore”, replicò Kamala.
Ogni mattina presto attraversava il fiume nel traghetto del
barcaiolo e consegnava il latte al pandit. Appena si sedeva
sulla barca cominciava a cantare lodi ad Hari. Kamala
giungeva alla casa del sapiente sempre puntuale. Non
arrivava mai in ritardo.
Mentre i giorni passavano, tuttavia, il barcaiolo era sempre
più stanco di alzarsi così presto al mattino. Cominciò ad
arrivare tardi. Kamala doveva aspettarlo sulla riva del
fiume.
Quando il latte arrivava tardi, il pandit si arrabbiava.
“Così non va bene”, diceva alla ragazza, “devi portare il
latte in tempo!”
Kamala chiese al barcaiolo di arrivare prima, ma egli non ci
riusciva.
“Perché sei ancora in ritardo?” urlò l’erudito il giorno
seguente.
“Non posso farci nulla, signore”, spiegò Kamala, “devo
attraversare il fiume con il traghetto. Il barcaiolo era in
ritardo”.
“Barcaiolo o non barcaiolo, devi portarmi il latte in
tempo!”, tuonò il pandit.
Tristemente Kamala tornò a casa.
Il venerdì pomeriggio Kamala attraversò ancora una volta il
fiume per andare alla casa del pandit
e ricevere il denaro dovuto per il latte.
Quel giorno un gran numero di persone aveva raggiunto la
casa del sapiente. Era seduto sulla veranda e stava leggendo
loro un testo sacro.
Il libro diceva che procedere nella vita, dalla nascita alla
morte, era come attraversare l’Oceano.
“Ma non abbiate paura”, disse l’erudito. “Potrete facilmente
attraversare l’Oceano se invocate Hari mentre procedete”.
Proprio in quel momento Kamala raggiunse la casa del pandit.
Ella udì cosa stava dicendo a proposito dell’attraversamento
dell’Oceano.
“Non è dell’Oceano che sono preoccupata”, disse Kamala fra
sé, “attraversare il fiume – questo è il mio problema! Spero
che il barcaiolo non sia di nuovo in ritardo domattina”.
La mattina seguente Kamala era in attesa sulla riva del
fiume. Il barcaiolo era in ritardo ancora una volta. Kamala
era molto triste. Scoppiò a piangere.
“Il latte sarà di nuovo in ritardo”, sospirò, mentre stava
aspettando da sola “e il pandit sarà arrabbiato con me, e si
metterà ad urlare”.
“Ma cosa posso fare? Solo Hari mi potrebbe aiutare!”.
In quel momento la fanciulla si ricordò delle parole del
sapiente.
“Tu puoi facilmente attraversare l’Oceano, se reciti il nome
di Hari mentre vai”, aveva detto il pandit.
“Certamente!” esclamò Kamala. “Come mai non ci ho pensato
prima? Che stupida sono! Chi può attraversare un vasto
oceano può attraversare un piccolo fiume. Posso attraversare
questo fiume se se pronuncio il nome di Hari mentre vado!”
Kamala raccolse la brocca del latte e se la mise sulla
testa. Poi, pensando solo al Signore, scese nel fiume. Non
si bagnò, poiché riusciva a camminare sull’acqua.
“Hari, Hari, Hari”, ripeteva Kamala incessantemente.
Ripetendo il nome di Hari mentre attraversava il fiume,
raggiunse la casa dell’erudito.
“Ah, sei arrivata in tempo oggi”, disse il pandit. “Il
barcaiolo si è alzato presto, eh?”
“No, signore”, replicò la ragazza, “il barcaiolo era ancora in ritardo, così non l’ho
aspettato”.
Il pandit era confuso.
“Non hai aspettato il barcaiolo? Come sei giunta qui?” le
chiese.
“Come, ho seguito il vostro insegnamento, signore”, rispose
Kamala. “E’ Una via decisamente migliore. Perché non me ne
avete parlato prima, signore, invece di rimproverarmi ogni
giorno?”
“Di cosa stai parlando, ragazza?”, urlò il pandit “qual è
‘la mia via’? Cosa vuoi dire?”
“Ma signore,” disse Kamala, “solo ieri pomeriggio vi ho
udito dire alla gente come attraversare l’Oceano. ‘Ripetete
il nome di Hari mentre procedete”, avete detto. “Se questo è
il mezzo per attraversare l’Oceano, andrà bene per
attraversare un fiume, non è vero? Voi lo sapevate tutto il
tempo, e non me lo avete detto!”
Il sapiente osservò la lattaia stupito.
“Vuoi dire che hai attraversato il fiume in questo modo?”,
egli disse.
“Sì”, rispose Kamala. “Non è difficile, non è vero? E così
sarò in grado di portarvi il latte in tempo ogni giorno.
Sono così felice di questo!”
Il pandit continuava a fissare la ragazza. Non sapeva se
crederle o no.
“Vieni con me, ragazza”, e la condusse sulla riva del fiume.
“Vai a casa, e fammi vedere come attraversi il fiume”,
disse.
“Non volete venire anche voi? Mio padre vorrebbe
ringraziarvi”, gli disse Kamala.
“Ehm – bene – sì” disse l’erudito. ”Vai prima tu, io ti
seguirò”.
“Oh, no signore! Come è possibile? Voi dovete andare per
primo!”, esclamò Kamala.
Il pandit non poteva rifiutare. Si fermò sulla riva del
fiume e cominciò a ripetere il nome di Hari. E mise un piede
sull’acqua.
Quando fece ciò, tuttavia, si ricordò improvvisamente che il
suo dothi era piuttosto lungo e si sarebbe potuto bagnare.
Così rapidamente cercò di tirarlo sù. Istantaneamente il suo
piede perse l'appoggio sulla superficie dell’acqua. Egli
cadde giù, e cominciò a dimenarsi nell’acqua.
“Hari, Hari, Hari”, recitò Kamala.
Ripetendo incessantemente il nome del Signore, Kamala
scivolò sull’acqua e diede la sua mano al sapiente. Lo aiutò
a risalire sulla sponda.
“Sono mortificata che vi siate bagnato, signore”, gli disse.
“Stavate pensando al vostro dothi, non è vero?”
“Kamala, bambina mia”, disse il pandit, “tu sei benedetta,
per la tua fede"!
*
Pandit: studioso, erudito, conoscitore delle sacre
scritture.
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