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Associazione
Centro Yoga Anahata
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1) Yoga e Occidente
«Dove
stiamo andando? Sempre a casa».
Novalis, Aforismi
Nel secolo scorso e fino alla metà di quello attuale, coloro che si
occupavano di filosofie orientali e specificatamente di Yoga erano
molto pochi e di estrazione piuttosto omogenea: filosofi, alcuni
missionari (soprattutto di sette protestanti) aperti e sensibili che
entrati in contatto con le realtà orientali ne rimasero affascinati;
studiosi desiderosi di rispondere agli interrogativi più profondi e
angosciosi della natura umana, spesso delusi dalle teorie e dai
metodi che le nostre religioni, scienze e filosofie mettevano a loro
disposizione.
Per la maggior parte di costoro avvicinarsi allo Yoga non fu un
fatto fortuito e casuale, ma una scelta volontaria e coraggiosa che
spesso li pose per la loro reale o presunta stranezza, ai margini
della società in cui vissero.
Questo atteggiamento attivo, frutto di volontà deliberata (fino a
qualche decennio fa i viaggi non erano così facili e sicuri come
oggi; i pregiudizi verso tecniche definite esotiche e strane erano
molto forti; alcuni dei testi fondamentali erano accessibili solo in
sanscrito) portò a risultati rilevanti, almeno dal punto di vista
teorico, specialmente in Germania, in cui la tradizione mistica
spesso si avvicinò alle concezioni dell'Induismo.
Basti ricordare F. Mayer, orientalista che stimolò A. Schopenhauer
allo studio della filosofia indiana, che pervase profondamente tutto
il suo sistema di pensiero ed ebbe la sua piena manifestazione nella
sua opera più nota, "Il mondo come volontà e come rappresentazione".
In Francia, nel 1889, E.
Schurè, noto orientalista, pubblicò "I grandi iniziati", in cui
tracciò la storia dei fondatori dei «misteri»,tra i quali Rama e
Krishna, collegandone gli insegnamenti in modo suggestivo, tale da
far emergere un unico grande disegno, una religione «universale».
In Italia, il nostro poeta Giacomo Leopardi, sviluppò una visione
“negativa” della natura, chiamandola “matrigna”, cioè malevola. Per
molti versi le sue concezioni rispecchiavano quelle del suo
contemporaneo Schopenhauer, col quale aveva notevoli affinità di
vedute. Il poeta disse che la lettura delle Upanisad fu una delle
poche consolazioni della sua vita.
Tra le due guerre vi fu, nuovamente in Germania, un rinascere
dell'amore per questi studi, un pullulare di società teosofiche ad
essi ispirati, e il rappresentante più noto di questi studiosi e
scrittori fu certamente H. Hesse, che dipinse nei suoi romanzi,
racconti ed impressioni di viaggio in modo preciso e poetico il
difficile percorso dell'individuo verso il cammino che porta alla
perfezione.
Molto diversa è la situazione ai giorni nostri, nel bene e nel male.
L'evoluzione della nostra società, l'apparente cosmopolitismo, il
progressivo ridursi delle distanze fisiche e mentali dovute alla
rapidità delle comunicazioni, l'abbandono di molti pregiudizi e
chiusure mentali hanno permesso il diffondersi ed il successo dello
Yoga e delle discipline orientali in genere, spesso senza molta
discriminazione.
Questi stessi motivi, uniti alla superficialità, alla fretta, al
desiderio di fruire immediatamente e senza sforzo a cui siamo
abituati, conducono inevitabilmente a svilire la disciplina stessa e
a decretare molti insuccessi di coloro che intendono intraprendere
questo difficile cammino.
La struttura della società occidentale contemporanea, tipica delle
civiltà industriali avanzate, è saldamente fondata sull'avere;
ovvero, ognuno di noi non viene valutato per ciò che realmente è, ma
per ciò che possiede.
A questo proposito, è illuminante un saggio di E. Fromm, Avere o
essere: "In una cultura in cui la meta suprema sia l'avere - e anzi
l'avere sempre di più - e in cui sia possibile parlare di qualcuno
come di una persona che vale un milione di dollari, come può esserci
un'alternativa tra avere ed essere? Si direbbe, al contrario, che se
uno non ha nulla, allora non è nulla".
Ed il senso di possesso non si ferma solamente agli oggetti, ma si
estende anche alle persone, alla conoscenza, al sapere, all'amore ed
agli oggetti d'amore, alla fede, alle amicizie, ai figli, alle idee.
Prosegue Fromm: "La proposizione I (soggetto) ho O (oggetto) esprime
una definizione dell' I tramite il mio possesso dell' O. Il soggetto
non è più il mio io, bensì l'io sono ciò che ho. La mia proprietà mi
costituisce e costituisce insieme la mia identità. L'idea sottesa
all'affermazione `io sono io' è `io sono io perché ho X', intendendo
con X tutti gli oggetti naturali e le persone con le quali
istituisco un rapporto tramite il mio potere di controllarli, di
farlo permanentemente. C'è però una relazione inversa: le cose hanno
me, pecche il mio sentimento di identità, vale a dire il mio
equilibrio mentale, si fonda sul mio avere le cose. Esso rende cose
sia il soggetto che l'oggetto. Il rapporto è di morte, non di vita".
Una siffatta concezione di vita, non può certo portare alla serenità
ed al distacco, poiché più possediamo cose, più corriamo il rischio
di perderle, che ci vengano sottratte o che perdano il loro valore.
Inoltre, ritenendo anche le idee, le convinzioni, la fede non come
attributi dell'essere, che quindi possono essere dinamicamente
modificati ed arricchiti, ma come possessi statici, così pure
possiamo porci di fronte allo Yoga, ed assimilarlo, fruirlo e
cristallizzarlo come una qualunque altra forma di conoscenza.
Ma lo Yoga è per eccellenza un attributo dell'essere. Per seguirne
la strada è necessario sgombrare la mente da pregiudizi, tendere
alla libertà, essere determinati ed agire deliberatamente. Tutte
queste qualità sono la negazione dell'avere, e perciò in completo
disaccordo con il modo di vivere attuale.
2) L'individuo e lo Yoga.
Una società che abbia per fine e massima espressione di felicità
l'avere, e l'avere sempre di più, non può che allontanarsi dalla
vera essenza e piombare in uno stato di scontentezza ed alienazione.
Inoltre l'attuale fenomeno di massiccio disinteresse per la
religione, che finora aveva colmato, sia pure con lacune e mancanze,
il bisogno di spiritualità delle passate generazioni, ha lasciato un
vuoto, che l'uomo, nel suo innato bisogno di trascendenza ha tentato
di colmare in qualche modo, a volte dibattendosi sprovveduto ed
incerto per l'abitudine secolare (specialmente delle popolazioni
cattoliche) di credere in una fede senza il minimo giudizio critico
e senza conoscenza diretta ed approfondita dei testi sacri
fondamentali.
Si assiste così al proliferare di movimenti sia in seno alla Chiesa
stessa (quali Comunione e Liberazione, i Neocatecumeni...),che se da
un lato portano ad un rinnovamento, dall'altro presentano
preoccupanti aspetti di integralismo ed intransigenza, sia un
disordinato brulicare di sette non tradizionali, molte delle quali
nascondono profondi e vergognosi interessi economici (Dianetici,
sette pseudo-orientali).
Non rari sono i casi di sedicenti Guru (specialmente negli Stati
Uniti) che approfittando dell'ingenuità e dei disperati bisogni
spirituali dei loro seguaci, costruiscono ingenti fortune (il caso
di Shree Rajneesh ne è un chiaro esempio).
Attualmente siamo in piena era new-age, in cui si vedono sorgere in
tutti i paesi occidentali le più disparate tecniche spirituali, a
volte basate su antichi riti e credenze di popoli dimenticati, a
volte assolutamente originali (in tutti i sensi). Improbabili guru
si mischiano a seri ricercatori, gettando ancora maggiormente nel
dubbio e nell’incertezza i nuovi adepti. Per rendersi conto di ciò è
sufficiente sfogliare una delle tante riviste dedicate alla new-age,
dove a spiritualità e ricerca interiore si mischiano con
disinvoltura interessi economici e gestioni manageriali.
In questo panorama generale
leggermente sconfortante, si inserisce il crescente interesse per lo
Yoga.
Per alcuni l'approccio può essere alquanto superficiale: poiché
l'Hata Yoga rende il fisico elastico ed aggraziato, lo mantiene
sano, viene praticato come una qualsiasi ginnastica; inoltre
abbinato alle tecniche di respirazione combatte lo stress,
l'insonnia ed è perciò divenuto un rimedio naturale ed alla moda per
alcuni strati della società.
Altri ancora ne fanno un uso prettamente terapeutico: nelle
rieducazioni degli arti o della colonna vertebrale in seguito a
traumi ed operazioni chirurgiche; inoltre lo Yoga, ristabilisce un
perfetto equilibrio psico-fisico ed è perciò indicato per la cura di
malattie somatiche o psichiche anche serie o complesse.
Alcuni si avvicinano allo Yoga perché spinti da amici, per moda o
solitudine; molti per il già citato bisogno di spiritualità, altri
ancora per genuino interesse ed affinità di sentimento.
Il motivo per cui si intraprende questo cammino sono alquanto vari,
diversi certamente per ogni individuo. Dei molti che lo
intraprendono, pochi sono capaci di portarlo avanti con serietà,
pochissimi lo accettano come sistema di vita, perché il percorso è
alquanto difficile e spesso si ignorano o si tralasciano i precetti
fondamentali.
Lo Yoga, nella concezione classica di Patanjali si compone di otto
stadi: « Le astinenze (yama), le osservanze (niyama), le positure
(asana), il controllo del respiro (pranayama), l'astrazione
(pratyahara), la concentrazione (dharana), la contemplazione
(dhyana), l'enstasi (samadhi), sono le otto parti (della
disciplina)». Patanjali, Yogasutra, II-29.
Solo la pratica costante e progressiva dei vari stati (o membra)
dello Yoga possono portare ad un effettivo progresso. Può sorgere
qualche dubbio sull'interpretazione di questo versetto; su come
debbano essere praticati i vari stadi, se sequenzialmente,
indipendentemente l'uno dall'altro, se sia possibile saltarne
qualcuno.
A questo proposito è illuminante un brano tratto dal commento a
questo sutra di I.K. Taimni: « L'unico punto degno di considerazione
di questo sutra è se gli otto stadi di questo sistema vadano
considerati parti indipendenti, oppure stadi che si susseguano l'uno
all'altro in sequenza naturale.
L'impiego del termine anga, che significa membra, implica che essi
vanno concepiti come parti relazionate ma non consecutive; ma il
modo nel quale Patanjali si è occupato di essi nel testo mostra che
possiedono una certa relazione di sequenzialità. Chiunque esamini
attentamente la natura di questi elementi non mancherà di vedere che
hanno riferimento l'uno all'altro in modo preciso e che si
susseguono naturalmente nell'ordine in cui sono elencati.
Nell'esercizio sistematico dello yoga superiore, pertanto, essi
vanno presi nel senso di stadi successivi, e si dovrà aderire il più
possibile all'ordine nel quale sono dati. Ma, potendo un sadaka
(adepto) impiegare per i propri esercizi qualunque degli anga senza
seguire strettamente questa sequenza, tali membri potranno pure
venire considerati in qualche misura indipendenti».
Per coloro che seguono lo Yoga con serietà e che aspirano alla
liberazione per suo tramite valgono due considerazioni: benché i
vari stadi possano essere considerati in qualche misura autonomi, è
impensabile di giungere, per esempio, al dhyana, senza praticare
yama e niyama: non si può ottenere il controllo della Mente se prima
non si è perfettamente dominato, fino ad averli completamente
trascesi, l'istinto alla violenza, all'attaccamento, alla
lussuria...; ciò non preclude, tuttavia, lo sviluppo o
perfezionamento di più stadi contemporaneamente, soprattutto
considerando separatamente i primi cinque livelli dagli ultimi,
trattandoli, un po' arbitrariamente, come due gruppi omogenei, il
secondo da intendere come yoga superiore. Non vi è infatti
contraddizione nel praticare le asana mentre si perfezione le virtù
dell'austerità o studio di sé; gli ultimi tre anga non sono che
l'affinamento progressivo di un'unica tecnica. La seconda
considerazione, basata sempre sui sutra di Patanjali, e - mente
nell'I-23 e nel II-45, è che attraverso l'isvara-pranidhana
(l'abbandono a Dio), una delle cinque virtù componenti niyama, si
possa pervenire al samadhi, ovvero al più alto stadio dello Yoga
attraverso ad un sentiero alternativo ed indipendente
dall'astanga-yoga.
Da queste poche considerazioni, risulta la fondamentale importanza
di yama e niyama, le quali, seppure spesso neglette o date per
scontate, sono le qualità essenziali per poter progredire sulla via
dello Yoga.
I motivi per cui questi primi livelli sono trascurati, possono
essere molteplici: trattando di virtù morali e sociali
apparentemente elementari, in parte assimilabili a quelle che anche
un "buon selvaggio" potrebbe praticare, e genericamente associabili
(almeno parzialmente) a quei principi che ogni società civile
applica (compresa la nostra, quindi), si dà per scontato che chi si
avvicina spontaneamente allo Yoga già le pratichi.
Alcuni di coloro che praticano lo Yoga sono spesso affascinati dalle
componenti esoteriche della disciplina stessa: la meditazione, il
distacco, le siddhi, i poteri straordinari ad essa connessi, un
tempo gelosamente custoditi e rivelati solo agli iniziati, mentre
oggi non sono più segreti, anche per coloro che non hanno mai
neppure praticato i rudimenti della disciplina. Parlare a costoro di
astensioni, austerità, pratiche spesso umili e noiose non farebbe
che forse allontanarli dalla disciplina, e dove l'insegnamento dello
Yoga è divenuto un puro fatto economico, un sistema per "fare
soldi", non è forse il caso di insistere oltre misura su questi
principi così scomodi e distanti dalla mentalità corrente.
Un altro motivo di disinteresse potrebbe essere questo: molti di
coloro che si avvicinano alla disciplina, hanno abbandonato una
religione ufficiale, nel nostro caso prevalentemente la Chiesa
cattolica, nella quale non si rispecchiano più, non trovando i
valori spirituali a cui aspirano. Per reazione, si rifugiano in
qualcosa di completamente altro; cercano valori, filosofie, dogmi,
totalmente diversi, quasi esclusivamente spirituali, a volte persino
un po' astrusi. Lo scoprire di dover sottostare ed anzi sviluppare
al massimo grado di perfezione dei precetti che ad uno studio
superficiale sono simili ai familiari comandamenti, non fa che
acuire quel senso di repulsione ed esasperazione che li ha condotti
ad abbandonare la loro congregazione religiosa.
Spesso leggendo racconti o bibliografie di grandi yogi indiani o
tibetani, si incontrano figure secondarie che apparentemente
dispongono di notevole saggezza o grandi poteri pur non rinunciando
a condurre una vita normale, simile alla nostra, mantenendo
l'attaccamento alle proprietà, all'io, al sesso, alle comodità :
sembrerebbe che pur procedendo sulla strada dello Yoga, forse non
sia necessario esercitare un rigore morale così rigido come quello
esposto da Patanjali. Purtroppo per coloro che vogliono
perfezionarsi attraverso lo Yoga, non vi è altro metodo. Cito ancora
Taimni: «...vi è poi una classe di yogi che hanno decisamente
intrapreso il sentiero `della mano sinistra', e che sono detti
"fratelli d'ombra". Possiedono poteri di vario tipo, sono privi di
scrupoli e pericolosi, sebbene all'esterno possano adottare una
modalità di vita che li fa sembrare pii. Ma chiunque possieda
un'intuizione sviluppata può localizzare queste persone e
distinguerle rispetto ai seguaci del sentiero "della mano destra"
per la loro tendenza alla crudeltà, alla mancanza di scrupoli e alla
presunzione.
...Suo obiettivo (del sadaka) non è lo sviluppo di poteri che
possano venire impiegati per auto-gratificazione o soddisfazione
della propria presunzione; sul sentiero dello Yoga superiore, è
essenziale una moralità di ordine elevatissimo; e non si tratta di
una moralità di tipo convenzionale, e neppure di una moralità del
consueto tipo religioso».
Queste affermazioni che appaiono così categoriche non vogliono
escludere che vi siano vie più moderate nell'osservanza di yama e
niyama, e non comportino un totale abbandono dei valori mondani;
avvisano semplicemente i cultori dell'astanga yoga che non vi può
essere un progresso significativo nella disciplina che hanno
intrapreso, nel sentiero verso la liberazione, se non seguendo
integralmente questi precetti fondamentali.
3) Yama e Niyama.
Yama e Niyama, come già
anticipato, corrispondono alle astensioni ed alle osservanze.
« I voti di astinenza (yama) comprendono l'astenersi dalla
violenza (ahimsa), dalla falsità (satya), dal furto (asteya),
dall'incontinenza (brahmacharya) e dall'avidità (aparigraha) ».
Patanjali, Sadhana Pada, II-30.
« La purezza (sauca), l'appagamento (samtosa), l'austerità
(tapa), lo studio di sé (svadhyaya), l'abbandono a Dio
(Isvara-pranidhana) costituiscono le cinque osservanze (niyama)
». Patanjali, Sadhana Pada, II-32.
E' mirabile come Patanjali, in soli due versetti sia riuscito a
condensare il fondamento della vita yoga.
Il paragone con i Comandamenti della nostra religione viene
spontaneo, e si possono riscontrare alcune similitudini, a partire
dal numero dei precetti, dieci per entrambi.
Ma le somiglianze non si limitano a particolari fortuiti o banali;
l'amore per Dio, il non uccidere, non rubare, la continenza, la
sincerità sono comuni ad entrambe le correnti di pensiero.
La differenza profonda che si avverte ad un'analisi più attenta
consiste nelle intenzioni con cui sono stati formulati i precetti:
nei Comandamenti l'accento è posto sulle azioni da compiere oppure
no; in Yama e Niyama sui concetti a cui uniformarsi.
Da ciò è evidente che non vi può essere un confronto diretto tra i
due sistemi, perché agiscono su piani diversi, come pure sono
diverse le persone a cui si rivolgono.
I Comandamenti sono stati scritti per un popolo sbandato, vagante in
un deserto, senza sicurezze, apparentemente abbandonato dal suo Dio,
e perciò esasperato, 'dal cuore duro', quasi senza ideali.
Pertanto le regole di vita date loro dovevano essere essenziali,
chiare, dure e senza sfumature: 'non uccidere', 'non desiderare la
donna d'altri', 'onora il padre e la madre', sono intelligibili da
chiunque, non richiedono interpretazioni e non lasciano dubbi sulla
loro applicazione.
Si possono considerare quindi come il livello minimo per una
convivenza socialmente accettabile, sostenuti da una spiritualità
anch'essa piuttosto modesta.
L'avvento di Gesù e l'introduzione del precetto di amore `totale',
relativo all'umanità nella sua interezza, rivolto sia verso i propri
cari, sia specialmente ai nemici, ai reietti, agli abbandonati, ai
delinquenti, nei quali si riflette la grazia di Dio, ne eleva
notevolmente il valore assoluto.
Anche il concetto della Divinità subisce un'evoluzione: dall'idea di
un Dio 'giusto ma terribile', un padre severo e geloso, necessario
per mantenere fedele e compatto nella paura del Castigo il popolo
ebreo, si passa alla concezione di un Dio sì giusto, ma
misericordioso, che sa capire e perdonare le miserie e le debolezze
cui è soggetta la natura umana.
Tuttavia furono e sono tuttora dei precetti per una vastissima
fascia di persone, di ogni condizione e ceto, di ogni livello
intellettuale e culturale, e quindi per loro natura restarono
essenzialmente semplici e schematici; ciò non toglie che la loro
applicazione sincera e disinteressata possa portare ad alti livelli
di perfezione individuale, a riprova che nonostante vi siano molte
strade verso il cammino della Liberazione, sia importante non tanto
la via scelta (che deve essere in armonia con il proprio essere),
quanto piuttosto la purezza di intenti con la quale la si persegue.
Il discorso su Yama e Niyama è molto diverso: essi sono stati
formulati per una piccolissima élite, dedita a pratiche fisiche e
spirituali eccezionali: in India, in Tibet, ora come secoli fa gli
adepti dello Yoga, del Tantra, del Buddhismo furono pochissimi, ed i
grandi saggi realizzati sono paragonabili per numero e qualità ai
nostri maggiori santi.
Il paragone non è del tutto casuale: la 'regola' di S.Francesco,
come quella adottata da molti altri santi dotati di una spiritualità
semplice e profonda, rispecchia con poche e quasi trascurabili
sfumature, i precetti propugnati da yama e niyama.
Perciò è improprio confrontare direttamente i Comandamenti con yama
e niyama, altrimenti l'impressione che se ne potrebbe ricavare
sarebbe di aridità e povertà dei primi nei riguardi dei secondi.
I Comandamenti dovrebbero essere confrontati con i precetti che
regolano la vita della semplice popolazione hindù ed il divario di
valori forse non sarebbe notevole. Infatti il divario del
comportamento ispirato dai Comandamenti rispetto a quello seguito da
grandi santi, asceti o penitenti, non è molto diverso dal modo di
vivere di un qualunque hindù o buddhista nei confronti di uno yogi
sulla via della realizzazione.
Perciò mentre i Comandamenti sono paragonabili alle leggi che
regolano la vita delle persone comuni in Occidente come in Oriente,
le osservanze e le astinenze che stiamo analizzando riguardano
coloro che ricercano la via che conduce alla liberazione, e che
pertanto perseguono un destino particolare, per sua natura difficile
da raggiungere, ma il cui raggiungimento è forse lo scopo ultimo
della nostra esistenza.
Come ho accennato prima, i Comandamenti trattano azioni; Yama e
Niyama concetti. Forse è il caso di approfondire la differenza
sottile ma essenziale dei termini. Mentre i Comandamenti si limitano
a dire come comportarsi in una determinata circostanza, senza badare
all'atteggiamento emotivo e morale di chi li compie, i precetti
dello Yoga non dicono solo come comportarsi in una determinata
circostanza, ma soprattutto quale atteggiamento mentale tenere.
'Non uccidere' (da applicarsi quasi esclusivamente ai propri simili)
è molto diverso da essere 'non violento' (ahimsa). Il primo riguarda
principalmente l'atto in sé; l'importante è il non uccidere il
proprio simile; il non commettere un delitto non preclude l'essere
pieni di odio o di livore. La pratica della non-violenza, al
contrario, tende a cancellare i motivi di odio, di paura, di
avversione o di presunta superiorità verso gli altri esseri viventi
(in qualsiasi forma si presentino); secondariamente, e come di
riflesso, l'atto di violenza diventa impossibile, perché la causa e
le motivazioni che ne sono alla base vengono a cadere.
Per comprendere chiaramente le qualità componenti Yama, è necessario
precisare il significato dei termini, che trascendono quello
corrente dato alla traduzione italiana. Per esempio, 'ahimsa'
(non-violenza), non ha solo una qualità passiva (astenersi dalla
violenza), ma anche una attiva, dinamica, di amare tutto ciò che ci
circonda; 'satya' non vuol solamente dire 'non falsità', ma
soprattutto amore per la verità; 'apharigraha' non è esclusivamente
'non-avidità', ma capacità di donare, di condividere con gli altri
quanto possediamo.
E' evidente che una morale di questo genere è di grado elevatissimo,
e che tentare di portare anche una sola di queste virtù ad un alto
grado di perfezione possa sembrare arduo, se non addirittura
impossibile. Eppure l'esempio dei saggi, dei santi, di coloro che
hanno raggiunto la Liberazione, ci insegnano che non è impossibile.
Una pratica continua, attenta, paziente, la capacità di non
abbattersi per i continui insuccessi, per la fragilità della nostra
natura, abbinata nella fede che il traguardo, in tempi lunghi, o
addirittura lunghissimi è raggiungibile, ci può portare a lenti ma
continui progressi verso la meta prefissata.
Viene spontanea la domanda: «Perché nella pratica dello Yoga non è
sufficiente una moralità ordinata, un moderato indulgere nei piaceri
che la vita ci può offrire ?». Anche nello Yoga, che si è sviluppato
nel corso di migliaia di anni, vi sono delle sfumature a proposito.
Accanto a teorie assolutamente ascetiche, a volte addirittura
inumane, fiorirono pratiche più moderate. In alcune, per esempio, è
consentito il matrimonio, e spesso grandi saggi sono stati sposati
ed hanno avuto numerosi figli; è anzi pratica comune in India che
anche coloro che ambiscono ad una vita spirituale abbiano una
famiglia e che poi, dopo aver condotto una vita pia, nella
vecchiaia, si ritirino in solitudine a meditare ed a compiere
pratiche di devozione. Lo stesso Buddha, prima iniziare il suo
cammino, ebbe una moglie ed un figlio.
Il seguire l'una o l'altra corrente dipende dalla nostra sensibilità
e predisposizione; e se una vita familiare a prima vista sembra più
semplice e naturale, nasconde spesso delle insidie e delle
difficoltà addirittura superiore ad una vita ascetica; ancora le
parole di I.K. Taimni illustrano lucidamente il problema: «La
finalità principale di questo inflessibile codice etico è di
eliminare completamente tutti i disturbi mentali ed emotivi che
caratterizzano la vita dell'essere umano ordinario. Chiunque abbia
familiarità con il lavoro della mente umana non dovrebbe trovare
difficile comprendere che non è possibile alcuna libertà dalle turbe
emotive e mentali finché le tendenze di cui lo yama-niyama si
occupa, non siano state sradicate o, almeno, non siano state
padroneggiate in grado sufficiente. L'odio, la disonestà, il
disprezzo, la sensualità, la possessività sono alcuni tra i vizi più
comuni ed inveterati della razza umana, e finché un essere umano è
soggetto a tali vizi, nelle loro forme sia crude che sottili, la sua
mente resterà preda delle turbe emotive violente o scarsamente
percettibili che hanno in tali vizi la loro prima origine. E finché
tali turbe continueranno ad affliggere la mente, sarà inutile
intraprendere l'esercizio più sistematico ed avanzato dello yoga».
Queste parole, chiarissime e dure, possono raggelare gli entusiasmi
di molti tra coloro che si avvicinano o già da molto tempo praticano
lo Yoga. Questa è la via; anzi, è la parte finale della via, quella
che conduce alla Liberazione finale da tutti i vincoli. Ma questa
perfezione non si raggiunge in poco tempo; per coloro che credono
nella teoria della reincarnazione è il frutto della sofferenza e
dell'affinamento di innumerevoli vite. Quindi, poiché lo scopo
prefisso è elevatissimo, è molto difficile raggiungerlo in breve
tempo, sia pure nell'arco di una singola esistenza, se non da uno
spirito molto progredito ed eccezionalmente tenace e dotato; perciò
è necessario intraprendere il cammino con pazienza ed umiltà, nelle
forme che più ci sono consone; attraverso al Karma-marga (compimento
del proprio dovere in modo disinteressato); al Bhakti-marga (la
devozione ed amore per Dio), al Jnana-marga (per mezzo dello studio
e della conoscenza, allo Yoga-marga (attraverso al controllo della
mente).
Le descrizioni e gli attributi di queste diverse vie (margas), sono
date in un libro meraviglioso ed antichissimo, la Bhagavad Gita (Il
canto del Beato), in cui Sri Khrisna, il signore supremo, impartisce
sul campo di battaglia ad Arjuna, un grande eroe e uomo giusto, gli
insegnamenti fondamentali sui precetti della devozione, della
meditazione trascendentale, della conoscenza, dell'azione
disinteressata.
«I voti di
astinenza (yama ) comprendono l'astenersi dalla
violenza (ahimsa), dalla falsità (satya), dal furto (as-
teya), dall'incontinenza (brahmacarya) e dall'avidità
(aparigraha)». Patanjali, sadhana pada, II-30.
«Tutti i santi e i venerabili del passato, del presente e
del futuro ,tutti dicono, annunciano, proclamano e dichia-
rano: Non uccidere, né maltrattare, né ingiuriare, né tor-
mentare, né perseguitare nessuna specie di creatura, nes-
suna specie di animale, né alcun essere di nessuna sorta.
Ecco il punto, eterno e costante principio della religione
proclamato dai saggi che comprendono il mondo!».
Ayaramgasutra, tradizione Giainista, III sec. d.C.
«Non uccida, non massacri nessun essere vivente, né inciti
altri ad uccidere; sia inoffensivo con tutti gli esseri che
vi sono nel mondo, mobili ed immobili».
Sutra di Dhammiko, Buddha
Vorrei ora analizzare più
profondamente ogni singolo precetto componente Yama, ovvero le virtù
sociali.
Ahimsa. Come già accennato nel capitolo precedente,
ahimsa vuol dire non violenza. Apparentemente il significato del
termine è evidente e si sarebbe tentati di andare oltre senza
approfondire eccessivamente.
In realtà, la perfetta comprensione di 'non-violenza' è alquanto
complessa, né io penso in questa esposizione di scendere molto oltre
la superficie del problema. L'analisi inizia dagli aspetti più
evidenti per poi scendere a quelli più sottili. Il primo aspetto che
si presenta è quello di non uccidere. Non uccidere i propri simili,
gli animali, le piante. Purtroppo già questi primi aspetti,
all'apparenza macroscopici, vengono disattesi ovunque con una
frequenza preoccupante.
E' sufficiente leggere un quotidiano o guardare un notiziario alla
televisione per sapere quante guerre, dichiarate o no, imperversano
per il mondo. Quanti nostri simili vengono inutilmente uccisi,
massacrati, torturati, privati dei loro diritti elementari e della
dignità umana. Le creature più deboli, che non hanno la voce per
protestare né la forza di difendersi, gli animali, non subiscono una
sorte migliore. Vengono uccisi per diletto, per dimostrare una
nostra presunta superiorità, per nutrirci. Ci comportiamo verso di
loro come se noi fossimo i signori del creato, con assoluto potere
su di loro e non come compagni di viaggio. Non mi soffermo sui
motivi per cui essere vegetariani, né costituzionali (l'uomo non ha
la struttura e l'apparato digerente di un carnivoro),né i vantaggi
per la salute (l'accertata associazione di molte gravi malattie
all'assunzione di carne), né ultimo, le turbe del carattere
associate al cibo animale (maggiore predisposizione alla violenza,
all'ira, alla lussuria).
Da studi recenti appare sempre più evidente che anche i vegetali
possiedono una loro acuta sensibilità. Quindi è necessario anche nei
loro riguardi comportarsi con la massima attenzione. Anche se sono
alla base della nostra alimentazione, non bisognerebbe abusarne:
acquistare (o coltivare) quelle verdure la cui raccolta pregiudichi
il meno possibile la sopravvivenza della pianta; come i cereali, che
si raccolgono ormai secchi; oppure i frutti maturi, che hanno
terminato il loro ciclo vitale. Inoltre non bisognerebbe neppure
mantenere delle scorte eccessive di alimenti deperibili, per evitare
di sprecare inutilmente sostanze viventi, la cui crescita ha
richiesto dispendio di energia, di tempo, di sofferenze.
Anche la raccolta di fiori, quando non servano ad uso officinale o
alimentare, mi sembra una violenza inutile: quale piacere estetico è
più puro di vedere un fiore nel suo ambiente naturale, e poi
serbarne un prezioso ricordo?
Queste precauzioni possono apparire eccessive, forse addirittura
maniacali; ma se crediamo nelle filosofia Yoga, possiamo capire
quanto ogni vita, in qualsiasi forma si presenti, sia preziosa e
rappresenti per l'essere in cui si manifesta un occasione di
avanzamento spirituale; se interrompiamo questo processo, anche
involontariamente, appesantiamo il nostro karma (insieme delle
azioni commesse in questa vita ed in quelle precedenti).
Ahimsa non vuol dire solamente non uccidere, ma l'essere
completamente inoffensivo; pertanto la prevaricazione esercitata
sugli altri esseri, sia essa fisica o morale, irridere le
convinzioni o le credenze altrui, rientrano nell'ambito delle azioni
da evitare. Ma la non-violenza non consiste in un elenco di
comportamento pratico; essa è una qualità dinamica della mente, e
come tale varia nell'applicazione con le circostanze, poiché ogni
situazione è unica ed esige un modo di affrontarla nuova e vitale.
La giusta visione non è data in modo meccanico, solamente soppesando
l'insieme dei fatti, ma è una facoltà della buddhi, la facoltà
discriminativa, che attraverso un lungo tirocinio, riesce sempre con
minore approssimazione a compiere l'azione giusta.
Molti tendono ad affermare che la perfetta ahimsa è irraggiungibile
e quindi ne traggono un alibi per comportarsi nel modo più comodo o
piacevole. Ma chi si vuole perfezionare, non deve badare a queste
deboli giustificazioni; sorveglia la propria mente, le parole e le
azioni e comincia a metterle il accordo con tale ideale. Analizza il
proprio comportamento e ne trae un insegnamento per il futuro.
Lentamente, avanzando nella pratica, la crudeltà, le ingiustizie
insite nei suoi pensieri gli si rivelano gradualmente e ciò gli
permetterà di riconoscere intuitivamente il giusto comportamento in
ogni circostanza. Lentamente il concetto di inoffensività si muterà
in quello di amore, di amore dinamico e positivo, inteso sia come
compassione che come servizio verso gli altri.
Il concetto di amore richiede alcune precisazioni. Per essere
totale, deve essere impersonale e disinteressato. Questa
affermazione può apparire un poco strana, poiché siamo abituati ad
amare i nostri cari, coloro con i abbiamo un rapporto di affetto e
di simpatia. Questo genere di amore è però alquanto instabile: un
mutamento di interessi, un ingratitudine, un tradimento, lo stesso
scorrere del tempo possono farlo diminuire o addirittura cessare.
L'amore rivolto ad ogni essere vivente in quanto tale, senza badare
se sia simpatico o odioso, bello o brutto, non può mai venire meno,
generando una corrente di compassione (nel senso etimologico del
termine, ossia di conoscere il dolore altrui e condividerlo) che non
si esaurisce.
Questo sentimento è insito nella cultura hindù (intesa in senso
ideale, indipendentemente dalle sue manifestazioni effettive):
infatti è più facile amare credendo che in ogni creatura viventi
alberghi un'anima immortale, incarnatasi su questa terra per
intraprendere il suo cammino spirituale, e che tornerà sotto
svariate forme, fino a quando, purificatasi attraverso la
sofferenza, non spezzerà la catena delle rinascite.
Il concetto di compassione universale (karuna) e benevolenza
universale (maitri) sono alla base della dottrina di Gotama, il
Buddha: «La mia dottrina è una dottrina di compassione: ecco perché
i felici del mondo la trovano difficile. Bisogna rispettare l'ordine
stabilito delle cose, ma la via della salvezza è aperta a tutti; la
nascita non condanna nessun essere alla ignoranza e alla
disgrazia...» E dicendo che la via della salvezza è aperta a tutti,
si può intendere non solo gli uomini, ma a tutti gli esseri viventi.
In Giappone si celebra ogni anno una cerimonia del buddismo
Mahayana, «The animal-releasing ceremony», in cui vengono liberati
animali che sono stati comprati apposta per salvarli dalla prigionia
e dalla sofferenza.
Nel messaggio che il quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso (la
più alta autorità politica e religiosa del Tibet),pronunciò ad
Assisi nel 1986 il giorno delle Preghiere per la Pace del Mondo, c'è
questa frase testuale: «My religion is very simple: my religion is
kindness». (la mia religione è bontà, gentilezza). Sono occorsi
secoli, millenni di incommensurabili sofferenze individuali e
storiche, (un esempio sono quelle patite nel silenzio e disinteresse
universale dai Tibetani...) per poter giungere a formulare una
affermazione breve e profonda come questa.
Parallelamente ad ahimsa, procedono abhaya (libertà dalla paura) e
akrodha (libertà dall'ira). L'uomo comune vive immerso nelle paure:
quella di perdere il proprio benessere, le persone care, del futuro,
della morte... Ciò è causata dall'ignoranza, che porta a
identificare noi stessi al nostro corpo, ed a legare ad esso il
nostro destino. Sebbene il corpo sia soggetto alle malattie,
all'invecchiamento ed infine alla morte, lo spirito rimane
inalterato.
Quando si raggiunge la consapevolezza non solo intellettuale ma
profonda ed intuitiva di ciò, le paure improvvisamente spariscono ed
anzi la certezza della morte è uno stimolo ad impiegare questa vita
nel migliore dei modi, compiendo il proprio dovere
disinteressatamente, amando il prossimo e Dio.
Vi sono due tipi di ira, uno che degrada, l'altro eleva. La radice
del primo è l'orgoglio e l'attaccamento al proprio io limitato e
conduce agli eccessi che ognuno di noi purtroppo conosce. Il
manifestarsi dell'ira conduce al disprezzo, al rancore ed all'odio.
Perciò è evidente il motivo per cui tutti noi ce ne dovremmo
astenere. Il secondo tipo è, per esempio, quella che lo yogi
manifesta verso sé stesso quando sbaglia, quando la sua conoscenza
del giusto non lo trattiene dalla follia e dall'errore.
Spesso parliamo della giustizia. La pretendiamo quando riceviamo
qualche torto, ma imploriamo comprensione e perdono quando siamo noi
a commetterlo. L'adepto, viceversa, sa che dovrebbe esserci
giustizia per una sua mancanza, e pietà per quella commessa da un
altro.
Approfondendo lo studio dei Sutra di Patanjali ci si rende conto
sempre più chiaramente di quanto le virtù che compongono Yama e
Niyama siano intimamente legate ed interdipendenti, e che la
mancanza di una sola di queste qualità portino a decadere l'intera
struttura di cui sono alla base.
Infatti, come può un individuo essere non violento e poi venir meno
alla pratica della verità, calunniando altre persone, o
appropriandosi di ciò che non gli appartiene, o essere tanto
attaccato al possesso da non saper condividere con gli altri ciò che
possiede? Queste azioni sono tutte, a livello sottile, delle forme
di violenza.
Inoltre, chi può praticare ahimsa, avere il coraggio di rinunciare
totalmente a difendersi, se non crede che ci sia un Dio che lo
protegge, ovvero, che permette che gli accada solo ciò che è giusto
per lui?
La violenza è frutto di ignoranza, quindi è impossibile superarla
senza la riflessione sui propri atti, la conoscenza del Sé
attraverso lo studio dei testi Sacri, l'esempio di un Maestro,
l'esecuzione delle pratiche di purificazione; la limitazione delle
proprie necessità materiali porta anche essa ad una riduzione della
violenza verso il mondo esterno.
4b) Satya
«Sia il vostro parlare si, si; no, no; il di più
viene dal maligno». Matteo, V-37
Satya, la seconda qualità morale, va anch'essa intesa in un ambito
più vasto della semplice veridicità. Essa implica l'astensione da
ogni esagerazione, equivoco, pretesa e simili difetti nel dire o
fare cose che non siano strettamente attinenti a ciò che noi
conosciamo per vero.
Perché nella pratica dello yoga è necessario attenersi sempre alla
verità? Il primo motivo è essenzialmente pratico. Tutti noi abbiamo
sperimentato quanta energia vada sprecata nel dire e sostenere una
menzogna. Apparentemente può sembrare la soluzione più comoda e
semplice per uscire da una situazione spiacevole; ma non tardiamo a
renderci conto che per rendere realistica una bugia, spesso ne
dobbiamo dire altre, costruendo un castello di menzogne che può
proseguire all'infinito. Inoltre, le circostanze della vita sono
così imprevedibili che prima o poi l'inganno viene scoperto. Tutto
ciò non ha che il risultato di complicarci la vita e rendere la
nostra mente turbata ed incerta, allontanandoci da una pratica
sincera e proficua.
Il secondo motivo è più sottile. Le situazioni ed i problemi che
incontriamo durante la nostra esistenza sono molteplici ed in
continuo mutamento. La loro soluzione non è né nei libri né nelle
conclusioni fondate sul retto pensiero. L'unica fiaccola in queste
tenebre è la buddhi, o intuizione. Nulla come la falsità ostacola
questa facoltà, perciò è indispensabile praticare la verità per
sviluppare una buddhi non offuscata e pura, che ci conduca con
sicurezza attraverso alle difficoltà che si presentano durante
l'esistenza. Ecco perché l'adepto dello yoga deve indossare
l'armatura di una perfetta veridicità di pensiero, parola ed azione,
tale che nessuna illusione possa infrangerla.
La verità non è solo limitata al discorso. Vi sono quattro abusi nel
modo di parlare: abuso e oscenità, falsità, calunnia e mettere in
ridicolo ciò che per altri è sacro. Colui che controlla il suo modo
di parlare allontana la malizia da se. Quando la mente non è più
maliziosa, si è raggiunto un notevole controllo di se, che conduce
naturalmente all'amore e alla compassione.
Perciò chi diffonde coscientemente, anche per motivi intrinsecamente
buoni, delle dottrine, ideologie politiche, idee o opinioni che sa
essere false, agisce contro il concetto di satya.
Per estensione, anche il nostro comportamento soggiace alle regole
descritte: colui che per interesse, vergogna o paura si comporta in
modo non conforme a ciò che crede, chi dà 'scandalo', (inteso in
senso biblico, ovvero commette delle azioni che possano turbare o
portare su una cattiva via persone semplici e pure), infrange il
precetto di satya. A questo proposito cito il vangelo di Marco 9,
41-42: «Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono
in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una
macina girata da asino e fosse gettato negli abissi del mare».
Purtroppo viviamo in quella che gli indiani chiamano "Kali yuga",
l'era di Kali, dea nera, violenta, terribile seppure necessaria. In
quest'epoca, spesso i valori sono ribaltati: infatti oggi uno dei
modi più facili per farsi pubblicità e rimanere popolari, è quello
di comportarsi in modo scandaloso o immorale; un esempio ne sono gli
attori del cinema. Alla loro mancanza partecipano in qualche misura
anche coloro che pubblicizzano o si interessano per pura curiosità a
questi comportamenti. Chi mantiene una vita pura e retta
difficilmente diverrà famoso (anche se vi sono notevoli eccezioni),
ma sicuramente avanzerà sulla via della perfezione e dello yoga.
Colui che vuole infrangere il velo di Maya, l'illusione, e conoscere
la Realtà, deve uniformarsi ai principi fondamentali che la
caratterizzano, i quali sono la Verità e l'Amore.
Nella vita sia interiore che esteriore tutto ciò che contrasta con
la legge dell'amore pone fuori dell'armonia ed è fonte di infinite
sofferenze; ecco dunque perché è necessaria l'ahimsa; allo stesso
modo, la menzogna in qualsiasi forma allontana dall'armonia con la
verità e conduce la mente in uno stato di agitazione e confusione
che rendono impossibile la percezione della Realtà.
4c) Asteya.
Asteya significa
letteralmente 'non rubare', ma pure in questo caso va intesa in
senso molto più generale, che non solamente nei termini compresi nel
codice penale.
Infatti 'non rubare' non è che l'aspetto maggiormente evidente del
problema; ogni persona che ha sviluppato un minimo senso morale si
astiene dal furto. Ma vi sono forme più sottili, come
l'appropriazione indebita, l'usare oggetti per uno scopo diverso da
quello per cui ci sono stati affidati o per un tempo maggiore di
quello concessoci.
L'adepto dello yoga non prende nulla che non gli appartenga
interamente, non solo come denari o beni, ma anche nelle forme più
sottili.
Parimenti godere di credito o privilegi che non gli spettano, oppure
superiori ai propri meriti, rientrano nelle azioni proibite da
asteya.
Inoltre, anche l'impossessarsi di idee e concetti originali altrui,
senza un esplicito consenso, è da considerarsi un furto.
Dobbiamo compiere scrupolosamente il nostro dovere, per quanto a
volte appaia noioso o spiacevole, sia che si tratti di lavoro o del
nostro impegno sociale; infatti tutti noi percepiamo un compenso per
le mansioni che svolgiamo, e se le eseguiamo negligentemente o non
nei termini pattuiti frodiamo chi ci retribuisce; parimenti è
necessario il nostro impegno sociale, da prestare nei limiti
concessi dalle nostre capacità ed attitudini, ma dal quale non ci
possiamo in nessun caso esimere, delegando altri al nostro posto: in
questo caso 'deruberemmo' i nostri colleghi, o condiscepoli, o la
comunità in generale del nostro impegno, che può essere piccolo, ma
mai insignificante.
Spesso, solo per aver compiuto il nostro dovere, pretendiamo, o ci
concediamo dei compensi, dei privilegi e con un certo
autocompiacimento ci sentiamo buoni, giusti...
Solo quando l'individuo riesce in qualche misura a ridurre la
tendenza all'appropriazione indebita, all'abuso della fiducia, al
cattivo uso nelle sue forme grezze, riuscirà a percepire le forme
più sottili di disonestà di cui è intessuta la nostra vita.
La nostra coscienza, alquanto insensibile, non si turba minimamente
quando commettiamo queste azioni; ma se riflettiamo per qualche
attimo, ci rendiamo conto della frequenza con cui indulgiamo in
esse.
Colui che desidera intraprendere il sentiero dello Yoga superiore,
dovrà eliminare sistematicamente queste tendenze indesiderabili,
fino a rendere la coscienza pura, la mente tranquilla.
Leggendo la Bhagavad Gita, uno dei precetti fondamentali che Sri
Krishna impartisce ad Arjuna, consiste nel compiere il proprio
dovere, qualunque esso sia, nobile o umile, disinteressatamente e
per amore del Signore; l'astenersi dall'attendersi un compenso per
il suo svolgimento, né turbarsi per gli effetti che può causare: non
abbattersi per i risultati negativi né esaltarsi per quelli
positivi.
Non applicheremo asteya nella sua pienezza fino a quando, oltre che
ad astenerci naturalmente dal furto, non smetteremo di desiderare
ciò che non ci appartiene o non ci spetta.
4d) Brahmacarya
Brahmacarya viene
correntemente tradotto come 'continenza', intesa principalmente come
astensione sessuale. Ma la tradizione letterale ha un significato
più vasto, ovvero 'vita di celibato, studio e autocontrollo'.
Per chi intende perseguire la via dell'astanga yoga, è forse uno dei
precetti più ostici da capire e praticare. Inoltre noi cattolici
vediamo come i nostri preti, che fanno voto di celibato, siano
spesso insofferenti di questa limitazione che può apparire
anacronistica ed insensata.
Eppure in tutte le grandi religioni, coloro i quali si dedicavano al
servizio di Dio e del prossimo, praticavano questo voto.
L’apparente contraddizione è forse dovuta ai diversi modi di
intendere il celibato nelle due religioni: nella cattolica per un
generico servizio verso il prossimo, inconciliabile con una famiglia
propria; per l'hindù una potente molla verso il progresso
spirituale.
Nell'applicazione di questo precetto, come in altri, appare evidente
la dicotomia tra i due sistemi: l'uno proteso tutto verso l'esterno,
il prossimo, un Dio lontano; l'altra concentrata nel profondo, alla
ricerca di Dio profondamente radicato in sé.
Lo studio sistematico della psiche umana, iniziato agli albori del
secolo da S. Freud, ha reso evidente a tutti quanto la pulsione
sessuale sia uno dei fattori primari e più profondi della nostra
natura.
Inoltre nell'uomo , a differenza di quasi tutti i mammiferi
superiori, la attività sessuale non è regolata da un ciclo biologico
preciso e può essere svolta senza soluzione di continuità.
Questi fattori, uniti al desiderio comune a tutti gli aspetti della
vita occidentale contemporanea, di provare il massimo del piacere in
tutte le manifestazioni possibili, hanno condotto ad una
'deificazione' del sesso, sradicato dal suo naturale contesto
dell'amore e della famiglia.
Ciò non può che condurre a insoddisfazioni e tensioni, perché un
piacere effimero come quello sessuale, estrapolato dal suo ambito, è
un'azione incompleta e frustrante.
Mi sembra questa una situazione comune a tante altre nella vita che
oggi conduciamo: pare che l'uomo provi un terrore o una repulsione
per ciò che è naturale. Porterò alcuni esempi: nella farmacologia,
si è progressivamente abbandonata la tradizione millenaria di
curarsi con i prodotti presenti in natura per i prodotti chimici o
di sintesi. Il processo è semplice: si studia la principale sostanza
attiva agente, la si sintetizza in laboratorio, si aggiungono pochi
eccipienti, si eseguono alcuni test clinici a campione e poi la si
introduce sul mercato. Ma non si tiene conto che la natura è
estremamente più complessa e più saggia di noi, e che ci fornisce
tutti gli elementi necessari alla vita, da quelli maggiormente
evidenti (che possono essere analizzati in laboratorio), a quelli
presenti a dosi infinitesimali, ma anch'essi indispensabili perché
il ciclo biologico si compia alla perfezione. Anche
nell'alimentazione si è perseguita una via simile: gli alimenti sono
divenuti sempre più raffinati, trattati con sostanze chimiche ed
impoveriti delle sostanze indispensabili ad una corretta
alimentazione: ciò ha portato a danni incalcolabili alla salute dei
paesi industrializzati.
L'eccessiva comodità che sempre maggiormente ricerchiamo ci
allontana ogni volta di più dalla terra e dalla natura...
Questa follia, dovuta alla presunzione dell'uomo di poter
intervenire nei processi della natura, con l'intento di
'migliorarla', ci ha portati alla situazione attuale, poverissima di
valori, assolutamente innaturale, in cui alla ricerca di valori
profondi ed immutabili si è sostituita quella del piacere fruibile
ed immediato.
Mi rendo conto che non è vero che nel passato tutto andasse per il
meglio e che tutto ora sia sbagliato; tuttavia ora il fenomeno ha
assunto proporzioni allarmanti; inoltre, mentre fino a qualche
decennio fa i gusti e gli interessi delle varie classi sociali erano
diversificati e non vertevano solo su aspetti puramente materiali,
oggi presentano un preoccupante livellamento verso il basso.
Dopo questa breve analisi, osserviamo il punto di vista dello yoga
riguardo all'attività sessuale.
Come già brevemente accennato nell'introduzione, ci sono sfumature
diverse nell'intendere il brahmacarya. Illustrerò brevemente quelle
di cui sono a conoscenza.
A) Assoluta intransigenza nell'indulgere a qualsiasi attività
sessuale e nella ricerca dei piaceri sensuali (Patanjali,
nell'interpretazione di J. K. Taimni).
B) Indulgere moderatamente nel piacere dei sensi, quando questi non
prendano il sopravvento sulla mente e siano diretti in modo lecito.
(B. K. S.Iyengar, A. C. B. Prabhupada).
C) L'uso di tecniche sessuali in modo rituale per attivare e
sviluppare l'energia evolutiva assopita nell’uomo, rappresentata da
un serpente addormentato, Kundalini, situato nel chakra più basso,
Muladhara. (Dhyanabindu Upanisad, Tantrismo).
Ognuno di questi atteggiamenti ha una sua tradizione, ed i punti A)
e B), interpretazioni diverse di Patanjali, sono solo apparentemente
contrastanti.
Infatti, se per intraprendere lo yoga superiore è indispensabile
evitare piaceri sensuali, non è necessario astenervisi per tutta la
vita. Nella tradizione della casta sacerdotale hindù, vi erano
quattro fasi ben distinte nella vita religiosa. Nel primo stadio,
l'aspirante brahmino è affidato ad un Guru, ed è un brachmachari,
votato allo studio e all'astinenza (jnana yoga); raggiunta la età
adulta, si sposa, diventa un grhastha, ha famiglia e segue la strada
dell'uomo giusto, che esegue il suo dovere disinteressatamente
(karma-yoga); quando ha visto il figlio di suo figlio, si allontana
dalla società da solo o con la consorte (vanapasthra-asrama) e si
dedica alle pratiche di devozione (Bhakti-yoga); nella vecchiaia si
distacca da tutto ciò che è materiale (sannyasa-asrama) e medita
nella solitudine e nel silenzio (raja yoga).
Come si vede, nell'arco di una singola esistenza sono rappresentati
tutti gli aspetti dello yoga. In quest'ottica è accettabile una vita
normale, dalla quale però devono essere banditi tutti gli eccessi, i
quali turbano la mente e non permettono un avanzamento spirituale.
Perciò la pratica del brahmacarya può essere intrapresa in qualsiasi
momento della vita, dalla giovinezza (nel caso dei monaci), sia
nella maturità o addirittura nella vecchiaia per le persone normali.
Ma perché è necessaria la pratica dell'astinenza nell'esercizio
dello yoga superiore?
La qualità essenziale per intraprendere la meditazione è la
tranquillità della mente. Ma come la si può mantenere stabilmente se
si è in preda a desideri sensuali? Inoltre l'attività sessuale
comporta una perdita di energia che lo yogi incanala in altre
direzioni.
Scrive Taimni: "Numerosi scrittori occidentali hanno cercato di
risolvere il problema suggerendo un'interpretazione più libera del
brahmacarya, e supponendo che esso non implichi l'astinenza completa
ma un esercizio sessuale moderato e regolato, entro il vincolo
legittimo del matrimonio (...) Per l'adepto serio ed avanzato,
questo desiderio di conciliare le gioie della vita mondana con la
pace e la conoscenza trascendente della vita superiore appare
piuttosto patetico, e mostra l'assenza di un senso reale dei valori
circa la realtà della vita yoga, e pertanto scarsa attitudine a
condurre tale vita. Chi giunga a porre sullo stesso piano, o anche a
considerare confrontabili, le gioie sessuali con la pace e con la
beatitudine della vita superiore che lo yogi persegue, deve ancora
sviluppare quella forte intuizione che ci dice di dover
inequivocabilmente sacrificare una pura ombra alla cosa reale, una
sensazione passeggera al massimo dono della vita".
Vi sono anche altri piaceri che dovrebbero essere evitati: l’uso di
profumi, di pellicce, il compiacersi di una cucina eccessivamente
raffinata... Poiché viviamo in un mondo fisico, siamo continuamente
immersi nelle sensazioni che sollecitano gli organi di senso: quando
mangiamo un piatto gustoso, non possiamo evitare la sensazione
piacevole che il cibo produce entrando in contatto con le papille
gustative; il difetto non sta in cosa proviamo, che è del tutto
naturale, ma nel desiderare che si ripetano le esperienze che
comportano sensazioni piacevoli. Ed è proprio il desiderio (ama) che
deve essere sradicato. La mente dello yogi non si attacca agli
oggetti che danno piacere né si allontana da quelli che danno
dolore; il contatto con gli oggetti provoca una sensazione, ma in
essa l'azione si esaurisce.
Pertanto, a differenza della concezione cristiana, il sesso e la
sensualità in generale, non è collegato al senso del 'peccato',
bensì è visto come una pratica che allontana la mente dalla pace e
dalla assenza di tensione necessaria per progredire nei livelli
superiori dello yoga.
La terza via, quella tantrica, parte dal presupposto che l'energia
sessuale sia estremamente potente, e che incanalata nella giusta
direzione, per mezzo di pratiche appropriate, sia in grado di
risvegliare Kundalini, l'energia evolutiva dell'uomo, simboleggiata
da un serpente dormente, attorcigliato alla base della colonna
vertebrale. I chakra, nelle persone comuni, sono visualizzati come
fiori di loto con i petali rivolti verso il basso. Quando la
Kundalini viene risvegliata, risalendo il canale energetico
centrale, chiamato Sushumna, trapassa tutti i chakra, da Mulhadara
(alla base della colonna vertebrale), ad Ajna, posto nel centro
della fronte, permettendo all'energia necessaria all'ascesa
spirituale di risalire, per poi traboccare nel momento della piena
realizzazione attraverso Sahasrara, il punto di contatto tra il
corpo fisico e quello sottile, posto al vertice del capo. Con il
progredire della consapevolezza, i petali dei chakra si rivolgono
verso l'alto.
I seguaci del Tantra, per risvegliare questa energia, oltre le
usuali tecniche dello yoga, fanno uso anche di pratiche erotiche.
Sebbene queste pratiche non siano riconosciute dalle tradizioni
classiche dello yoga, non vanno intese come un indulgere nei piaceri
fisici o desiderio di procreazione, ma come azioni rituali.
Infatti per gli yogi l'emissione di sperma è intesa come perdita di
energia vitale e perciò da evitare assolutamente. Pertanto l'unione
di un adepto con la sua compagna ha una funzione mistica,
simboleggiando l'eterno amplesso di Siva con Shakti, la potenza, il
suo aspetto femminile.
E' perciò evidente l'autocontrollo e la perfetta padronanza di sé
richieste da queste pratiche, la spersonalizzazione dell'atto stesso
necessaria per un effettivo progresso verso la realizzazione che
pochi di noi possono raggiungere, specialmente in ambito
occidentale, dove le tradizioni in merito sono radicalmente diverse.
Perciò la via del Tantra non è assolutamente più permissiva di
quella dello yoga classica, e va seguita solamente se si ha una
naturale predisposizione per essa, e non per trovare una parziale
gratificazione dei sensi.
4e) Aparigraha.
«Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mie-
tono, né ammassano nei granai: eppure il Padre vostro
celeste li nutre». Matteo, VI-26
«Osservate come
crescono i gigli del campo: non lavo-
rano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Sa-
lomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di
loro». Matteo, VI-28
«Perché là dov'è il
tuo tesoro, sarà anche il tuo cuo-
re». Matteo, VI-21
Aparigraha significa 'assenza di avidità', o forse meglio ancora,
'non possessività'.
L'istinto al possesso è forse uno dei più radicati e profondi
dell'animo umano. Inoltre, l'avvento della civiltà ha ulteriormente
influenzato questa inclinazione 'naturale' dell'uomo, facendone la
base del suo mantenimento e sviluppo, e così si è gradualmente
passati da una società fondata sull'essere ad una incentrata
sull'avere, in cui ognuno è valutato per ciò che possiede, e non per
ciò che realmente è. (Vedi E. Fromm, Essere e Avere, introduzione).
Ognuno di noi tende ad accumulare sempre di più, oltre al
necessario, oltre ogni ragionevole concetto di benessere, solo per
il desiderio infantile di apparire 'migliore', per impressionare il
prossimo.
Analizzando la vita di ognuno di noi apparirà evidente quanto del
nostro tempo e quale parte delle nostre limitate energie vengono
sprecate per accumulare oggetti di cui non abbiamo assolutamente
bisogno per vivere.
Inoltre, più cose possediamo e più dobbiamo investire tempo ed
energie per serbarle e difenderle, e proporzionalmente aumenteranno
dolori ed ansietà con l'accrescersi dei beni. Bisogna inoltre
considerare il timore e l'angoscia di perdere quanto possediamo e il
dolore che proviamo quando di tanto in tanto subiamo qualche
perdita, ed il rimpianto di dover abbandonare tutto quando lasciamo
questo corpo.
E' assolutamente impensabile di tentare di risolvere i problemi più
profondi della vita, di intraprendere un cammino che conduca alla
liberazione e contemporaneamente sprecare preziose energie
nell'accumulare beni. La mente attaccata al possesso è agitata,
inquieta e non può dedicarsi alla riflessione ed introspezione che
lo yoga richiede.
Il limite di quanto è indispensabile e quanto superfluo per il
mantenimento della vita è relativo, e i grandi rishi ci insegnano
fino a che punto estremo può arrivare la rinuncia di beni terreni.
Inoltre bisogna considerare che il senso di attaccamento è
indipendente da quanto realmente possediamo. Una persona può essere
circondata dal lusso senza esserne toccata, e rinunciare ad esso
senza rimpianti quando necessario; al contrario è possibile che un
penitente nel deserto sia profondamente attaccato ai suoi miseri
possessi.
In un certo senso, il problema è analogo a brahmacarya: l'attenzione
non va posta sul piacere in sé, ma sul desiderio di ripetere
l'esperienza che l'ha provocato; in aparigraha il problema non verte
sull'uso strumentale che ne possiamo fare, ma sul nostro
attaccamento ad essi.
Perciò chi intende intraprendere seriamente la strada dello yoga,
dovrebbe rinunciare ad ammassare beni, ridurre al minimo le proprie
esigenze, eliminare tutte le attività non necessarie che disperdono
inutilmente energie e che sono fonte di turbamento per la mente.
Dovrebbe inoltre essere pronto ad abbandonare in qualsiasi momento,
senza rimpianti e lietamente ciò che possiede.
Inoltre, per la persona religiosa, l’ammassare beni è un insulto a
Dio: infatti sottintende una mancanza di fede nell'Essere Supremo ed
in sé stessi per provvedere al proprio futuro. Il sadaka invece deve
sviluppare la convinzione che gli giungerà quanto necessario al
momento giusto. Ciò non deve trarre in inganno: non bisogna
diventare passivi, attendendo che il necessario per il nostro
sostentamento ci venga dal cielo: semplicemente, bisogna compiere il
proprio dovere disinteressatamente. Si legge nella Bhagavad Gita:
"Questo è il segno dell'azione satvica: l'uomo agisce senza
attaccamento. Non ha più il senso dell'io nell'azione, ma compie il
proprio dovere con ferma perseveranza ed entusiasmo, e solo per
senso del dovere, senza preoccuparsi affatto del successo o
dell'insuccesso". B. G., XVIII, 26.
Aparigraha non è forse che un altro aspetto di asteya, il quale
significa, prima ancore di impossessarsi, di non desiderare ciò che
appartiene ad altri; aparigraha agisce su un piano leggermente
superiore, perché dice di non desiderare, indipendentemente
dall'oggetto e dal suo eventuale possessore. Perciò è impossibile
che chi segue il precetto di aparigraha rubi, si appropri
indebitamente di qualcosa o che solamente ne formuli il pensiero.
4f) Maha-vrata.
"Questi (i cinque voti di yama), non condizionati dalla
classe,
dal luogo, dal tempo o dall'occasione ed estesi a tutti gli
stadi, costituiscono il grande voto". Patanjali, II,31
Dopo aver elencato in II,30 le astinenze, in questo sutra alquanto
importante Patanjali spiega con grande chiarezza come queste debbano
essere applicate nel maha-vrata, il grande voto.
Spesso ci si chiede se in casi eccezionali questi precetti possano
venire disattesi. Per esempio, un vostro amico, che sapete
innocente, verrà condannato, e potrete salvarlo solo mentendo
(occasione); oppure siete chiamato a combattere contro dei nemici
che attaccano il vostro paese (tempo);dovete andate in Antartide,
dove l'unica fonte di alimentazione è data dall'uccisione di animali
(luogo); un filantropo ammassa grandi sostanze per poi darle
parzialmente a chi è bisognoso. Può quindi venir meno ad aparigraha?
(classe).
Ognuno di noi è posto di fronte ogni giorno a numerose di queste
scelte, e spesso si chiede se può derogare per motivi apparentemente
giusti dall'applicare alla lettera yama. Patanjali è estremamente
chiaro: mai e per nessun motivo si può venir meno alla loro
osservanza.
Ciò ha delle implicazioni molto serie, in quanto a volte mantenere
integralmente questi voti, può implicare rischi molto gravi, fino
alla perdita della vita stessa. Per poter seguire questo ideale è
indispensabile una grande forza morale, sostenuta dalla fede che
nulla di male può accadere a chi persegue il giusto. Questo non vuol
assolutamente dire che non si debba soffrire: la sofferenza è dovuta
al karma accumulato nelle vite precedenti, ed è perciò necessario
sopportare le esperienze spiacevoli. Le difficoltà hanno lo scopo di
metterci alla prova, proporzionalmente alle nostre possibilità, e se
dimostriamo la nostra ferma determinazione a compiere il giusto ad
ogni costo, i problemi si risolveranno nel modo più inaspettato.
A questo proposito, scrive Taimni: «L'adepto potrà trovarsi in
gravissime difficoltà, potrà pagare molto cara l'osservanza dei voti
-persino pagarla con la pena estrema, la morte- ma non potrà mai, in
nessuna circostanza, rompere uno dei voti. Anche se per osservare i
voti dovrà sacrificare la vita, egli dovrà superare lietamente la
prova nella ferma convinzione che l'immenso influsso del potere
spirituale che si verificherà necessariamente in tali condizioni,
controbilancerà di gran lunga la perdita di una sola esistenza.
(...) Inoltre l'adepto dovrebbe sapere che in un universo governato
dalla legge e fondato sulla giustizia, nessun vero male potrà
capitare a chi cerchi di compiere il giusto». [1]
Se da un certo punto di vista questa concezione senza compromessi
può indurre l'adepto in serie difficoltà, d’altra parte facilita
moltissimo le scelte da compiere, non lasciando alcuno spazio ad
ambiguità. L'universalità del voto non lascia alla mente nessuna
scappatoia, e la linea di condotta in numerosissimi casi sarà
completamente chiara, e potrà seguire il retto sentiero, avendo la
certezza che nessun altro gli si apre.
Si deve osservare che sebbene si insista sulla necessità di compiere
il giusto, quale sia questo giusto sta nell'interpretazione del
sadaka, e la sua sola sensibilità, e non il giudizio altrui deve
guidarlo. Se compie l'ingiusto con retta intenzione, la sofferenza
che ne seguirà servirà naturalmente da insegnamento; ma il desiderio
di compiere ciò che è giusto ad ogni costo rischiarerà
progressivamente la sua facoltà di discernimento, conducendolo allo
stadio in cui sceglierà il giusto con sicurezza, senza più
sbagliare.
Ecco perciò un ulteriore motivo per cui una ferrea dirittura morale
è indispensabile per il serio praticante dello yoga.
5d) Tapas
Questo elemento, assieme ai due seguenti, compone il kriya yoga,
come già accennato nel paragrafo 5a. Tapas non ha un significato
univoco nella nostra lingua, ma viene abitualmente tradotto con
ardore, austerità, purificazione, autodisciplina. Probabilmente
deriva da un termine dal processo che consiste nel portare ad alta
temperatura il minerale grezzo fino ad ottenere l'oro puro. Quindi,
anche simbolicamente, ha il significato di purificare attraverso il
fuoco dell'austerità e della disciplina. In un certo senso, la
tecnica attraverso la quale si costruisce il carattere, ponendo
sotto controllo i veicoli inferiore, è una pratica di tapa, ma in
senso ortodosso, il tapa viene impiegato in una serie di esercizi
specifici per controllare il corpo fisico e la forza di volontà. I
tapas possono essere divisi in tre tipi: può riferirsi al corpo
(kayika), al discorso (vachika) o alla mente (manasika). La
continenza (brachmacharya) e la non-violenza (ahimsa), sono tapas
del corpo. Non calunniare, dire la verità senza badare alle
conseguenze, non parlare male del prossimo, sono tapas del parlare.
Sviluppare un modo di pensare che mantiene il soggetto equilibrato e
sereno nella gioia e nel dolore e che gli permetta di mantenere il
controllo di sé stesso sono i tapas del pensiero.
Alcuni, desiderando con fervore esercitare i tapas, formulano i voti
più impensabili, per esempio di rimanere per anni su una sola gamba,
senza badare che l'altra si dissecchi, o procurano al corpo
sofferenze continue ed insensate. Queste pratiche sono considerate
'demoniache' dalle scuole yoga più illuminate, e considerate con la
massima severità.
Normalmente la pratica dei tapas inizia con esercizi molto semplici,
che in fasi successive diventano più ardui, i quali mettono alla
prova la forza di volontà dell'adepto, con lo scopo di produrre una
graduale separazione della coscienza dai veicoli inferiori, causando
un'attenuazione di asmita, la coscienza che dice: «io sono quello».
Solamente raggiungendo (almeno parzialmente) questo potere di
scindere la coscienza dai veicoli, ovvero di non identificarsi col
corpo, il sadaka potrà controllare e purificare i veicoli stessi,
permettendogli di impiegarli per le finalità dello yoga.
Con le tapas lo yogi sviluppa la forza del corpo, del carattere e
della mente, acquista coraggio, saggezza, integrità, onestà e
semplicità.
5e) Svadhyaya.
«Sva» significa il
proprio essere e «adhyaya» studio o educazione. Perciò svadhyaya
significa educazione dell'io. Talvolta viene impiegato
nell'accezione restrittiva di studio dei libri sacri. Questa però
non è che la prima parte del lavoro da compiere: come in ogni
scienza, anche nello yoga è indispensabile conoscere i testi
fondamentali, per acquisire la conoscenza dei principi teorici e
delle pratiche che l'ideale yoga comporta.
Questo studio teorico non porterà molto avanti sulla strada
dell'auto-realizzazione, ma riveste una grande importanza per
l'adepto. Spesso chi intraprende la strada dello yoga ha una
preparazione intellettuale molto vaga e confusa e quando si trova a
dover affrontare gli innumerevoli problemi che questa scelta
comporta, spesso si scoraggia, decide di abbandonare la via
intrapresa o cade in balia di persone senza scrupoli che per
attirare gente presso di sé promettono ogni specie di risultati,
spesso assolutamente fantastici, che a lungo termine otterranno
l'effetto di allontanare chi si era accostato alla disciplina o
addirittura di renderlo scettico e incredulo.
Sri Vinoba Bhave afferma che «svadhyaya è lo studio di un soggetto
che è la base o la radice di tutti gli altri soggetti o azioni, sul
quale tutti gli altri si basano, ma che a sua volta non si basa su
nulla».
Sebbene lo studio delle sacre scritture e dei testi specifici sullo
yoga siano indispensabili, non sono che il primo passo. Nello stadio
successivo, il sadaka comincia a riflettere ed a meditare sui
problemi più profondi studiati sui libri. Questa riflessione
costante prepara la mente a ricevere la conoscenza vera e propria,
attraverso al soffio dell'intuizione. Quanto più chiara sarà la
percezione dei problemi, tanto più vivo sarà il desiderio di
risolverli. Gradualmente la riflessione si muterà nella meditazione;
la mente verrà sempre più assorbita dall'oggetto della ricerca, il
quale potrà essere di varia natura: una verità astratta, un oggetto
di devozione con il quale l'allievo intende entrare il comunione...
Di grande aiuto in questa ricerca profonda è la recitazione dei
mantra, che hanno la caratteristica di ottenere una fusione parziale
tra la coscienza inferiore e quella superiore. Perciò questo
cammino, che all'inizio è puramente intellettuale, prosegue
attraverso alle fasi della concentrazione, della meditazione, dei
tapas, della devozione, fino a quando l'individuo abbandona ogni
aiuto esterno, come i libri, i discorsi altrui e troverà nel
profondo della propria mente quanto sarà necessario alla sua
ricerca.
Praticando con devozione questo precetto, l'adepto è simile a colui
che scoperto l'angusto accesso di una caverna vi si inoltra, e con
l'aumentare della profondità vede espandersi a dismisura le
dimensioni della grotta, fino a divenire immensa: così chi penetra
nelle profondità del proprio sé con un intento puro, con la
perseveranza e le tecniche adatte, entra in contatto con l'Atman, la
coscienza indivisa ed immutabile.
5f) Isvara-pranidhana
«Il raggiungimento
del samadhi deriva dall'abbandono a Dio».
Patanjali, Sadhana Pada, II-45
«Pratica la presenza di Dio col fissare in Me la tua mente.
insegna al tuo intelletto a ragionare in favore mio tanto col
rigore della logica quanto nell'onda dell'impeto d'amore.
Allora vivrai in Me e Io in te. Non devi avere dubbi su que-
sta unione fra Me e te per mezzo dell'amore».
Bhagavad Gita, XII-8
«Sia fatta non la mia, ma la Tua volontà».
Matteo, XXVI-36
Isvara Pranidhana viene abitualmente tradotto con rassegnazione a
Dio. Quando la persona comune pratica questo precetto, intende
principalmente assoggettarsi lietamente alla volontà suprema di Dio,
sebbene l'esperienza che ha prodotto questo atteggiamento possa
essere alquanto spiacevole. Questo atteggiamento, superiore a quello
di chi impreca contro le inevitabili avversità che si susseguono nel
corso dell'esistenza, è tuttavia una rassegnazione passiva, e non
l'armonizzare il proprio essere con la volontà divina.
Tale modo di pensare non porta grandi progressi nel cammino
dell'avanzamento spirituale. Ma poiché l'Isvara pranidhana è un
metodo per giungere al samadhi, come affermato nel sutra II-45,
porterà una profonda trasformazione entro il sadaka, molto più
profonda della pura accettazione di ogni prova o sofferenza a cui
possa essere sottoposto nel corso della propria vita.
Secondo la filosofia che sta alla base dello yoga, la realtà entro
di noi è libera dall'illusione fondamentale che è fonte delle
miserie della nostra esistenza. il purusha, o coscienza individuale,
è una manifestazione di questa realtà. Come avviene che il purusha
si assoggetti a questa grande illusione? attraverso l'imposizione
dell'io individuale e alla identificazione del purusha con i suoi
veicoli e con l'ambiente in cui la coscienza è immersa. Fintanto che
persiste il velo dell'asmita, ovvero della singolarità dell'io e
dell'egoità, l'individuo resterà prigioniero dell'illusione e del
dolore. Solamente rimuovendo questo schermo che vela la coscienza,
si raggiungerà la liberazione. Questa è l'idea fondamentale che
sottende alla filosofia yoga, la quale mira, con vari sistemi, sia
diretti che indiretti ad infrangere questa illusione fondamentale.
L'Isvara pranidhana è appunto uno di questi metodi, teso ad
infrangere l'asmita tramite la fusione della coscienza individuale
con la volontà divina, distruggendo così la radice dei klesa, fonte
di ogni dolore. «Sacrifica a Me tutte le tue attività e riposa in Me
la tua mente solo assorta in Me, senza serbare alcuna idea di
proprietà né speranza di profitto personale tuo: diverrai libero,
emancipato per sempre; combatti guarito da questa febbre mentale!».
Bhagavad Gita, III-30.
Pertanto questo esercizio inizia con l'asserzione «sia fatta la Tua,
non la mia volontà», ma questo è solo l'inizio. Procede con la
progressiva spoliazione del falso io, fino a raggiungere la
coscienza di Isvara, la cui volontà opera nel mondo manifesto. Vi
sono vari metodi per raggiungere ciò.
L'adepto può ricercare di diventare strumento cosciente della
volontà divina compiendo sempre ciò che gli sembra giusto e agendo
con retta coscienza. Questo è inevitabilmente un processo lungo e
graduale, che richiede una ferma convinzione poiché è un'agire alla
cieca, non conoscendo i fini di Dio, né questa coscienza è
indispensabile, almeno un questa fase, poiché una personalità
capricciosa non controllata non vi si assoggetterebbe neppure se
essa fosse palese. Ma con l'andare del tempo, mantenendosi nella
ferrea ricerca di ciò che è giusto e conformando la propria condotta
su questo ideale, anche la buddhi (la facoltà di discriminare),
gradualmente si fa più acuta e sicura, fino a uniformarsi alla
volontà di Isvara. Tale è il karma-yoga.
Per l'adepto altamente emotivo la via sarà diversa. Egli non porrà
l'accento sulla fusione della volontà individuale con quella divina,
ma sull'unione con l'amato attraverso l'amore. Ma poiché l'amore si
esprime con l'abnegazione e alla subordinazione all'amato, anche
attraverso a questa forma devozionale (bakti-yoga) si perviene
all'annullamento del falso io (asmita). In questo caso è l'amore che
determina la distruzione dell'egoismo e conduce al samadhi, come
annunciato nel sutra II-45.
Questa è la strada percorsa dal «Movimento per la coscienza di
Krishna», più nota col nome di«Hare Krishna», fondata verso la metà
degli anni '60 da Baktivedanta swami Prabhupada negli Stati Uniti,
da cui si diffuse poi in tutto l'Occidente. La loro attività si
fonda principalmente sulla devozione a Dio, la recita e il canto dei
Suoi santi nomi, la lettura della Bhagavad Gita e dello Srimad
Bhagavatam, il servizio verso il prossimo e la diffusione della loro
dottrina.
Il fatto che l'Isvara Pranidhana conduca al samadhi è una
rivelazione sorprendente, e Patanjali indica nel sutra I-23 e
successivi che questa è una via alternativa e indipendente
all'astanga yoga.
Come già accennato nel presente paragrafo, il purusha è offuscato
nel comprendere la sua natura divina dalle citta-vritti, ovvero le
modificazioni della mente, mantenute costantemente attive dalla
coscienza dell' 'io', che fa sorgere continui desideri e mantiene la
mente in continua espansione e agitazione. Abbandonandosi a Dio,
attraverso la volontà o l'amore, vi è un progressivo affievolirsi
dell'asmita, che porta al citta-vritti-nirodha, ovvero alla
condizione di assoluta quiete mentale, in quanto l'azione non è più
determinata dall'interesse personale, ma dalla volontà di Isvara che
si manifesta attraverso alla coscienza individuale; perciò non si è
più legati ai frutti dell'azione, che diventano del tutto
irrilevanti e indifferenti. E la quiete mentale che ne deriva è
appunto il manifestarsi del samadhi. E questa è certamente una via
dolcissima per raggiungerlo.
Om, shanti,shanti, shanti.
Agazzano, 01.11.91
(Piacenza, 30.01.99)
Frammenti su yama e nyama tratti dai testi classici dello yoga.
Yoga sutra di Patanjali
(tratto da "la scienza dello yoga", I.K. Taimni, ed. Ubaldini)
Libro dell'enstasi - Samadhi Pada
23) [L'enstasi] oppure [si ottiene] grazie alla dedizione al Signore (Isvara-pranidhana).
Libro del metodo . Sadhana Pada
1) Lo yoga pratico (kriya
yoga) è ascesi (tapa), studio delle scritture (svadhyaya), dedizione
totale al Signore (Isvara-pranidhana).
2) Esso ha per scopo la realizzazione dell'enstasi e l'attenuazione
delle dolorose afflizioni originali.
29) Gli otto livelli dello yoga sono: precetti negativi (yama),
precetti positivi (niyama), posture (asana), controllo del respiro
(pranayama), raccoglimento (pratyahara), concentrazione (dharana),
meditazione (dhyana) ed enstasi (samadhi).
30) i precetti negativi sono: inoffensività (ahimsa), veracità
(satya), onestà (asteya), castità (brahmacharya) e assenza di
attaccamento (aparigraha).
31)Quando non ammettono limitazione di specie, luogo tempo o
circostanze, e sussistono tutti gli stadi [mentali], costituiscono
il grande voto (maha-vrata).
32) I precetti positivi sono: purezza (sauca), appagamento
(samtosa), ascesi (tapa), studio delle sacre scritture (svadhyaya),
dedizione totale al Signore (Isvara-pranidhana).
33) Per scacciare ogni tentazione se ne evochi l'antidoto.
34) L'antidoto consiste nel considerare che le emozioni malvagie
come la violenza, compiute, fatte compiere o approvate, causate da
brama, ira o ottundimento, di intensità lieve, media o intensa,
portano perennemente come frutti dolore e ignoranza.
35) In presenza di colui che è saldamente fondato nell'inoffensività
(ahimsa) cessa ogni ostilità.
36) Colui che è saldamente fondato nella veracità (satya) governa il
frutto dei riti.
37) Colui che è saldamente fondato nell'onestà (asteya) vede venire
a sé ogni bene prezioso.
38) Colui che è saldamente fondato nella castità (brahmacharya)
ottiene energia virile.
39) Colui che è saldamente fondato nell'assenza di attaccamento
(aparigraha) acquista piena conoscenza delle circostanze delle sue
vite.
40) Per effetto della purezza (sauca) si prova disgusto per le
proprie membra e si evita il commercio con quelle degli altri.
[Dalla purezza fisica [sorge] il disgusto per il proprio corpo e la
riluttanza a stare in contatto fisico con gli altri].
41) Si ottiene inoltre la purezza del sattva, tranquillità,
unintenzionalità, vittoria sui sensi, attitudine alla visione del
Sé.
42) Per effetto dell'appagamento (samtosa) si ottiene piacere senza
eguale.
43) Per effetto dell'ascesi (tapa) [si consegue] la perfezione del
corpo e dei sensi grazie alla distruzione delle impurità.
44) Per effetto dello studio delle sacre scritture (svadhyaya) si
incontra la divinità prescelta.
45) Per effetto della dedizione totale al Signore
(Isvara-pranidhana) [si attinge] la perfezione dell'enstasi
(samadhi).
La lucerna dell' hata yoga - hata-yoga-pradipika di Svatmarama (tratto dalla "luverna dell'hatha yoga", a cura di Giuseppe Spera, ed. Promolibri)
Lezione prima
16 bis) Gli yama e nyama: La mancanza del desiderio di uccidere, la sincerità. l'onestà, la castità, il perdono, la fermezza, la compassione, la rettitudine, la moderazione nella dieta e la purezza sono i dieci yama. L'ascesi, l'accontentamento, la fede religiosa, la liberalità, l'adorazione del Signore, l'ascolto dell'esposizione della dottrina, la vergogna nel non comportarsi in modo non conforme alle prescrizioni, il retto intelletto, la ripetizione a fior di labbra delle preghiere e l'oblazione sacrificale sono chiamate i dieci niyama da coloro che conoscono i testi dello yoga.
Lo yoga rivelato da Shiva - Siva samhita (tratto da "Lo yoga rivelato da Shiva" a cura di Maria Paola Repetto, ed. Promolibri)
Terzo capitolo
17) Non ottengono mai
successo [nella realizzazione dello yoga] coloro che sono attaccati
ai desideri, quelli che sono privi di fiducia, coloro che non
onorano il maestro, quelli che desiderano i beni del mondo, quelli
che abitualmente mentono, quelli che sono crudeli nelle loro parole,
quelli che non soddisfano il maestro.
33) Lo yogin eviti decisamente queste cose: [... ] il furto, la
violenza, l'ostilità verso la gente, l'egoismo, la disonestà, il
digiuno, la falsità, la compagnia delle donne, il culto del fuoco,
il parlare troppo di cose piacevoli e spiacevoli, il troppo cibo.
34) Lo yogin segua sempre e solo questi precetti: [...] ascolti
discorsi di verità; osservi sempre i doveri di capofamiglia, ma con
distacco; ripeta incessantemente il nome di Visnu; ascolti suoni
straordinariamente dolci; sia dotato di fermezza, pazienza e
purezza; pratichi l'ascesi; sia modesto e devoto; renda omaggio al
maestro.
Yogatattva-Upanisad
26) ...dei dieci
raffrenamenti (yama), per esempio,
quel che più importa è l'astenersi
dal cibo troppo ricco;
27) il più importante
dei dieci obblighi (niyama)
è quello che prescrive la non-violenza (ahimsa).
Postfazione
Quest’ultima parte non è perfettamente organica, poichè riunisce una
serie di spunti che potrebbero essere sviluppati.
Dopo sette anni rifletto nuovamente su questo scritto che
rappresentò una tappa cruciale e una svolta fondamentale nella mia
pratica dello yoga. Fino ad allora il mio interesse si era rivolto
principalmente allo hata-yoga, intesa come pratica fisica. Scoprire
che vi era un substrato etico così rigoroso mi fece dubitare delle
mie reali capacità in questo ambito. Per qualche tempo esitai, poi
compresi che l’unica via percorribile era quella sperimentale;
radunai il mio coraggio e decisi di mettere alla prova le mie
(modeste) capacità. Questo approfondimento mi costrinse a
confrontarmi con i temi basilari dello yoga, di cui yama-niyama sono
i pilastri: anche le più ardite costruzioni dell’uomo, come le
piramidi, non sarebbero mai state costruite se le basi, umili e
invisibili, non fossero state assolutamente solide. Così, nello
yoga, non può essere raggiunta la vetta (l’enstasi, illuminazione,
nirvana...) senza porre adeguate fondamenta (yama e niyama).
Questo breve poscritto vorrebbe essere inoltre una testimonianza di
quella che è stata la mia pratica di questi anni. Quando scrissi le
mie considerazioni su yama e niyama, vivevo da solo, abbastanza
isolato in me stesso, praticando assiduamente la disciplina. Ora ho
una compagna, dei figli. Il tempo che posso dedicare a me stesso e
alla sadhana si è estremamente ridotto; altre persone hanno bisogno
delle mie cure, di attenzione ed affetto. Le situazioni evolvono, la
vita è “come l’acqua che scorre”, fluida, senza soluzioni di
continuità. Eppure i precetti di yama e nyama non ne vengono
scalfiti, non presentano alcuna incrinatura. Hanno una loro validità
universale, anzi, in situazioni differenti si arricchiscono di
significato e profondità. Negli anni vi possono essere delle piccole
vittorie, piccole sconfitte, ma secondo me ciò che è veramente
essenziale è perseguire una meta con determinazione. Si può
sbagliare, si possono avere debolezze. E’ importante rendersene
conto, accettare serenamente le situazioni che questi casi
particolari ci donano. Quando si presta questa attenzione, anche il
concetto di ”karma” non è più astratto, ma lo si comincia a vedere
operare. Io riesco a percepirne solo i meccanismi più grossolani; ma
sono convinto che perfezionando la pratica, si dispieghi
gradualmente ai nostri occhi il meccanismo che agisce, con una
giustezza che nessun giudice umano ed anche celeste (se analizziamo
i miti greci, ebraici, cristiani ed anche hindu) sarebbe in grado di
raggiungere. Alcune persone grandemente avanzate sono in grado di
perseguire il precetto di amore universale istintivamente; la
maggior parte di noi deve affinasi attraverso alla sofferenza che le
azioni ingiuste ed interessate ci provocano. Se le accettiamo
passivamente, o ci ribelliamo senza analizzare le cause della nostra
situazione attuale, faticheremo molto ad avanzare. Al contrario,
quando ci rendiamo conto che le attuali situazioni dolorose sono il
frutto di una serie di nostre azioni commesse, allora potremo con il
tempo affrancarci dalle azioni che procurano dolore, e divenire
veramente dei jiva-mukta, liberati viventi.
Riferendoci nuovamente ai testi, negli yoga sutra (vedi paragrafi
precedenti), ben venti aforismi su di un totale di centonovantasei
trattano di questo argomento. Patanjali fu di una sinteticità
esemplare, e non si trova nella sua opera un solo termine ridondante
o superfluo, perciò questo ci insegna quanto l’osservanza di yama e
niyama sia importante nel contesto globale della sadhana quotidiana,
di una pratica propedeutica o anche autonoma. Anche le siddhi che
derivano dalle osservanze hanno una loro ferrea logica; esse non
sono da perseguire e neppure dei traguardi, ma degli indicatori
accurati del nostro stato di avanzamento; considerati come tali,
quando se ne è presa coscienza, possono essere abbandonati senza
rimpianto.
Lo scopo del raja yoga è delineato nel secondo verso degli Yoga
sutra: “Yogas citta-vrtti-nirodhah” , acquietare i vortici della
mente. Questa è la spiegazione tecnica, perfetta nella sua
essenzialità. Ma noi spesso abbiamo bisogno di una spiegazione più
“emotiva”. Ho riflettuto a lungo su ciò, e ritengo che lo scopo sia
la ricerca dell’armonia. Certamente non è una conclusione
travolgente, ma in linea con la tradizione. L’Universo osservato ad
ogni livello, sia nell’infinitamente grande che nell’immensamente
piccolo mostra un altissimo grado di armonia. L’uomo, che racchiude
in sé un infinitesimo frammento del cosmo, ricerca istintivamente
questa armonia. Compatibilmente al suo grado di coscienza, manifesta
questo impulso in modi totalmente diversi. Un saggio illuminato
realizzerà in modo pienamente cosciente questo obbiettivo, lasciando
spesso nel mondo un’impronta indelebile; le persone comuni,
tenderanno a ciò in modo più o meno inconscio e confuso; esseri di
basso livello spirituale in balia di avidya e tamas, agiranno in
modo apparentemente antitetico rispetto all’obiettivo. Anche la
storia umana, vista sotto questa luce, permette una diversa chiave
di lettura. I romani, all’apice della loro potenza, sottomisero
tutto il mondo allora conosciuto. Cosa li spingeva? La sete di
ricchezza, di potere? Certamente furono componenti essenziali. Ma
ritengo che manifestarono così la loro sete di armonia,
«omogeneizzando» popoli disparati portando la loro legge, religione,
costume. Anche Hitler, e i molti che lo seguirono, perseguendo un
sogno folle e perverso cercarono con mezzi terrificanti e luciferini
di raggiungere questo scopo, tentando di annientare un popolo che
ritenevano inferiore, e con la sua esistenza turbava l’armonia. Gli
stessi hindu, ponendo in essere le divisioni delle caste, tesero a
creare e mantenere dei gruppi omogenei, impedendo dei “vortici”
materiali, dovuti per esempio a unioni tra persone di caste, e
quindi a livelli di purezza, diversi. Il socialismo storico, cercò
di rendere gli uomini uguali imponendolo dall’esterno, cancellando
le peculiarità; per sua stessa natura era destinato a fallire, come
tutti gli altri tentativi ingenui e transitori.
La cultura dominante contemporanea considera l’uomo nel suo divenire
dalla nascita alla morte come un contenitore che deve essere
riempito di sapere e nozioni da accumulare, e questa viene
comunemente detta “cultura”. Sottintende spesso una certa dose di
passività e la si può considerare una tecnica “additiva”.
Lo yoga tende a porre in luce la perfezione che già esiste in ognuno
di noi, solamente nascosta innumerevoli strati di ignoranza e
ottundimento. Yama e niyama conducono all’essenza, abbandonando
sulla via tutto ciò che è superfluo, e prima di tutto l’attaccamento
e la paura, le fonti principali dell’ignoranza. Il perfetto non si
attacca a nulla, non possiede alcunché, va al di là delle teorie,
delle credenze, della forma e della realtà apparente; in questo
senso non crede a nulla, neppure in una divinità in senso
tradizionale. La pratica dello yoga è una tecnica “sottrattiva” e
squisitamente empirica, personale.
La nostra cultura può essere rappresentata dalla pittura: L’artista,
sulla tela vuota aggiunge il colore, trasferisce delle atmosfere, le
sue sensazioni. Per contro, lo scultore, quando è veramente
ispirato, trae dalla pietra ciò che esiste in potenza e aspetta di
essere portato alla luce: scava, affina, ma non aggiunge niente alla
perfezione nascosta, in attesa. Ognuno di noi nel suo profondo, come
in uno scrigno, possiede già l’essenza; semplicemente si è
dimenticato la chiave per raggiungere il tesoro. Le pratiche per
risvegliare questa memoria sono innumerevoli, e non ultima la nostra
disciplina.
Fino all’inizio di questo secolo, sebbene la maggior parte delle
persone svolgesse un faticoso lavoro fisico, aveva un ambito
ristretto, i ritmi erano più lenti, c’erano poche fonti di
distrazione e quindi se una persona era portata all’introspezione,
aveva modo di concentrarsi sull’oggetto della sua ricerca interiore.
Attualmente invece l’uomo, come le sue macchine, è diventato
anch’esso “multimediale”, come lo ha definito Marilia Albanese;
ovvero agisce su più piani contemporaneamente. Oggi non è certamente
deplorevole essere “impegnatissimi”, “non avere un attimo di
respiro”; anzi, per molti è uno status-symbol di una apparente
modernità. Tutti noi sappiamo, senza tuttavia riuscire veramente ad
opporci, che questa eccessiva frammentazione non porta nulla di
veramente buono, e certamente non arricchisce lo spirito. Se
l’obbiettivo dello yoga è “calmare i vortici della mente”, la vita
contemporanea ci indirizza su una strada sostanzialmente opposta.
Sta a noi trovare l’equilibrio tra attività e contemplazione; una
pratica costante di yama e niyama ci mantiene inoltre in
un’attenzione sottile su quella che noi normalmente consideriamo la
realtà; ci aiuta pertanto a essere anche spettatori della
rappresentazione di cui siamo attori; restando in questo piano
leggermente superiore a quello in cui noi siamo abituati ad agire,
possiamo essere più distaccati, e considerare la nostra vita
frenetica con una certa distanza, restandone meno coinvolti dal
piano emotivo e spirituale.
Mi accorgo spesso di contrapporre la cultura occidentale con quella
dello yoga: questa tendenza è riduttiva, infatti, come ho già
accennato altrove, anche nella nostra cultura tradizionale cristiana
esistono valori analoghi: semplicemente oggi li abbiamo scordati,
ovvero li abbiamo davanti agli occhi ma siamo ciechi. Semplicemente
scavando nella nostra tradizione di qualche decennio fa, quando le
condizioni di vita avverse rendevano le persone più disponibili
verso gli altri e meno attaccate al benessere personale, potremmo
ritrovare la strada dimenticata.
In questo senso, forse si riesce a superare la dicotomia
oriente-occidente, cristianesimo-induismo. Tutti noi, ed io per
primo, siamo portati a confrontare le varie tradizioni, come
trattato nel terzo paragrafo. Però, oltre un certo limite, questo
confronto diventa sterile. Se vogliamo veramente cambiare la nostra
situazione spirituale, abbiamo due alternative: restare nel mondo, o
ritirarci in qualche convento e dedicarci alla contemplazione.
Alcuni hanno intrapreso questa seconda, difficile via. Dei molti
occidentali che sinceramente sono andati in Oriente ed hanno
intrapreso quel percorso, pochi hanno trovato la vera via che
conduce alla liberazione: per esempio, un tibetano è fin dalla
nascita abituato ai rigori del freddo, ad una vita senza comodità,
in cui tutto si riduce all’essenziale. Un’occidentale, che
intraprende questo percorso, si trova a dover affrontare anche
queste difficoltà, oltre allo shock culturale. Perciò le sue energie
in parte considerevole vanno utilizzate per raggiungere uno stato
che per ogni bimbo tibetano è già connaturato. Inoltre, se noi siamo
nati in Occidente, questo avrà un senso, relativamente alla legge
del karma. La Baghavat-gita incessantemente ammonisce ad agire
disinteressatamente, o se questo è troppo difficile, offrire
l’azione al Supremo: questo è un sistema infallibile che induce
distacco e serenità interiore. Yama e niyama possono avere un
effetto simile. Se noi continuiamo ad agire come il solito, cercando
comunque di evitare le occupazioni palesemente inutili, le pratiche
di astensione-obblighi, ci obbligano a mantenere sempre un controllo
vigile su noi stessi: mentre agiamo (nella realtà ordinaria), la
coscienza rimane sempre vigile per vagliare le nostre azioni
(diventando un sistema di controllo della realtà): sperimenteremo un
duplice stato, come se vedessimo la scena da due angolazioni
diverse, la prima usuale, la seconda con una prospettiva più ampia,
agenti e osservatori neutrali allo stesso tempo. Il giudizio su noi
stessi diverrebbe maggiormente acuto ed imparziale, distaccandoci
progressivamente dalla meschinità dell’azione interessata.
Bibliografia
Anonimo Bhagavad Gita
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